venerdì 3 febbraio 2012

I martiri del Novecento

Bernhard Lichtenberg
Quando la crescente follia nazista porta Adolf Hitler alla Cancelleria del Reich nel 1933, Bernhard Lichtenberg era stato nominato prevosto della cattedrale di Berlino da appena un mese. Secondo dei cinque figli del commerciante August e di sua moglie Emilie, Lichtenberg era nato ad Ohlau il 3 dicembre 1875 ed era stato ordinato sacerdote il 21 giugno 1899 dal vescovo Georg von Kopp nel duomo di Breslavia. Oppositore del nazismo fin dalle origini, Lichtenberg viene considerato nemico del Reich e osteggiato dalle alte gerarchie del regime che lo additano come “combattente fanatico per la causa cattolica”. Nella preghiera serale in cattedrale, dopo il massacro compiuto dalle squadre della SS nella “notte dei cristalli”, Lichtenberg si rivolge ai presenti con queste parole: “Quel che è stato ieri lo sappiamo. Quel che sarà domani non lo sappiamo. Ma quello che è successo oggi l’abbiamo vissuto. Là fuori la sinagoga è in fiamme: anch’essa è casa di Dio”. L’autunno del 1941 è segnato da un inasprimento della persecuzione antisemita. Al volantino diffuso dal gerarca Goebbels per incitare all’odio razziale, Lichtenberg risponde con una lettera indirizzata ai fedeli: “Nelle case berlinesi viene divulgato un giornale che incita all’odio contro gli ebrei. Esso afferma che ogni cittadino tedesco che per supposta errata sentimentalità aiuta gli ebrei, anche fosse solo tramite una semplice compiacenza, compie un atto di tradimento verso il suo popolo. Non fatevi fuorviare da queste idee non cristiane ma agite secondo i comandamenti di Gesù Cristo: Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Nell’ottobre dello stesso anno Lichtenberg viene arrestato e tradotto nelle prigioni naziste. Nonostante le sofferenze e gli interrogatori, il sacerdote mantiene ferma la volontà di difendere la sua fede cristiana: “Se taciamo noi preti, la gente perde del tutto la bussola e non sa più dove si trova”. Deportato dalla Gestapo al campo di concentramento di Dachau, Lichtenberg muore il 3 novembre 1943 durante il tragitto spossato dalla fatica e dalla mancanza di medicinali.


Alla luce della storia, il Novecento è stato a tutti gli effetti “tempo di martirio”. Dal genocidio degli armeni perpetrato dall’impero ottomano ad inizio secolo fino alle vittime più recenti disseminate in ogni angolo del mondo, il sangue versato dai martiri cristiani ha disegnato una mappa dello sterminio compiuto ai danni della Chiesa. Nei documenti elaborati in 5 anni di lavoro e pubblicati nel marzo del 2000, la Commissione per i nuovi martiri costituita da Giovanni Paolo II nel 1995 ha tracciato una prima sintesi del sacrifici o patito dai cristiani. Sono 12.692 i “nuovi martiri” del Novecento: 7.734 vescovi, 2.845 religiosi e 2.113 altre persone. Uomini e donne uccisi per la loro adesione al messaggio di Cristo, senza eccezioni di confini o aree geografiche: 746 in Africa; 1.706 in Asia; 8.670 in Europa; 333 nelle Americhe; 126 in Oceania; 1.111 nella Ex-Unione Sovietica. Numeri impressionanti che offrono indicazioni sulla dimensione reale del “martirologio contemporaneo”, così chiamato da Papa Wojtyla nel discorso d’apertura del Concistoro straordinario (13 giugno 1994) durante il quale chiede un aggiornamento del catalogo dei martiri che renda giustizia al sangue versato dai cristiani perché “al termine del secondo Millennio la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa dei martiri”. Il materiale elaborato dalla Commissione, tuttavia, non offre il censimento esatto di tutti i morti in nome della fede nel corso del Novecento. Non tutte le Conferenze episcopali e le Congregazioni religiose interpellate dalla Commissione, infatti, hanno risposto positivamente all’invito di raccogliere testimonianze e documentazione sulle persecuzioni subite dai cristiani nel loro territorio.
Una mancanza di dati dovuta soprattutto alla difficoltà di accedere alla memoria di un martirio che, in molti casi, è ancora troppo viva nella percezione dei protagonisti. Da questa prima ricognizione compiuta su nomi e volti del “secolo del martirio”, emerge un’Europa segnata da totalitarismi e oppressioni. Il 26 maggio 1936 muore nelle isole Solovki, arcipelago della Russia settentrionale, il sacerdote cattolico Nicolaj Aleksandrov. Dopo aver sostituito padre Vladimir Abrikosov alla guida della parrocchia, Aleksandrov viene arrestato nella notte del 12 novembre 1923 con l’accusa di attività controrivoluzionarie. Nel gulag delle Solovki, all’interno delle mura del monastero convertito a campo di lavoro, Aleksandrov si dedica alla formazione di una comunità di fedeli nonostante le condizioni inumane a cui i prigionieri sono sottoposti. Grazie alla sua determinazione, padre Nicolaj ottiene il permesso di celebrare la messa in una cappella che era stata adibita a deposito merci. Nel 1934, Aleksandrov viene rilasciato con il divieto di abitare nei sei centri urbani più importanti dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Impiegato come ingegnere nella città di Dmitrov, padre Nicolaj continua a celebrare in maniera clandestina nell’abitazione privata e viene scoperto dalle autorità comuniste. Incarcerato e processato, Aleksandrov è condannato a 5 anni di lavori forzati. Morirà nelle isole Solovki, all’età di 52 anni.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’ideologia comunista estende la sua influenza anche ai paesi dell’Europa orientale. Persecuzioni antireligiose, chiusura delle scuole cattoliche, controllo sul clero, abolizione degli ordini religiosi ed emarginazione dei credenti divengono espedienti metodicamente utilizzati in Bulgaria, Polonia, Ungheria e Romania. In Albania, il dogmatismo ideologico e la politica nazionalista di Enver Hoxha porta al bando di Dio dalla società nel 1967. Si inaugura così la persecuzione contro associazioni, congregazioni e fedeli: dei 6 vescovi e 156 preti in vita prima dell’avvento del comunismo, 65 furono uccisi per condanna a morte o sotto tortura e altri 64 si spensero nei campi di lavoro o in prigione. La storia del gesuita Daniel Dajani è un esempio dello spirito che anima coloro che sono disposti a mettere in gioco la propria vita in nome di Cristo. Sottoposto a torture negli anni della detenzione, padre Dajani conservò la dignità di uomo nelle carceri albanesi. Ricorda un detenuto che lo aveva incontrato in galera: “All’ora del pranzo uno di noi ricevette del cibo inviato dalla famiglia e riuscì ad offrirgli un’arancia senza che il guardiano se ne accorgesse. Ma il prete rifiutò con nostra grande sorpresa: ‘No, figlio mio, devi mangiarla tu. Tu sei giovane e ne hai più bisogno di me’. Questo gesto di quell’uomo di Dio in quei momenti orribili fu indescrivibile, così umano, così coraggioso per tutti noi, che eravamo dei giovani”.
Nel corso del Novecento, numerosi sacerdoti e laici trovano il martirio per il loro impegno missionario. In Africa, la Chiesa si profonde con maggiore vigore nell’opera evangelizzatrice legandosi talvolta in modo inestricabile con le politiche coloniali messe in atto dalle potenze occidentali nella prima metà del secolo.
Domestico presso l’agente di una società belga in Congo, Isidore Bakanja è solito indossare lo scapolare della Madonna del Carmine e professare la fede cristiana. Il suo datore di lavoro, però, ritiene che i neri debbano soltanto lavorare e non perdere tempo in preghiere. Ordina ad Isidore di togliere lo scapolare ma questi si rifiuta, chiedendo di tornare a casa. Viene così flagellato per due volte consecutive, con frustate che scavano sul suo copro ferite inguaribili. Dopo una lenta agonia di sei mesi, Isidore si spegne con lo scapolare al collo. Ad un amico dice: “Se vedi mia madre, se vai dal giudice, se incontri un sacerdote, avvertili che sto morendo perché sono cristiano”.
È un lavoro complesso e delicato quello portato avanti dai missionari in Africa, inseriti in un contesto che tende a deteriorarsi ancor di più nel secondo Novecento quando si avvia il processo di decolonizzazione. In molti casi, i missionari vengono identificati con il potere europeo e diventano oggetto di odio e violenza. Negli ultimi due mesi del 1964, quattro padri comboniani, il vescovo di Wamba, sette missionari e il medico della missione evangelica di Ubangi, Paul Carlson, vengono brutalmente uccisi in Congo. Nel 1972 suor Cecilia Jansen, olandese delle missionarie di Nostra Signora d’Africa, accompagna un malato di cancro a Kampala. Arrivata nella capitale dell’Uganda, suor Cecilia viene colpita di fronte al segretariato cattolico da alcuni uomini che la aspettavano dentro un’automobile. La morte sopraggiunge dopo poco tempo, a causa delle ferite riportate.
La presenza cristiana è vittima delle persecuzioni anche in Asia, soprattutto durante il periodo del comunismo. Nella Cina maoista, il salesiano Giuseppe Fu Yutang partecipa alle riunioni di propaganda contro i missionari e il Vaticano. Nel corso di uno di questi incontri, però, il sacerdote si oppone all’indottrinamento e viene arrestato. Anche il chierico Pietro Ye Mingren, che ne prende le difese di fronte ad alcuni studenti, viene prelevato e portato in carcere. Di lì a breve Pietro muore per tubercolosi e, nell’ottobre del 1961, don Giuseppe si spegne nel campo di lavoro di Bai Hu.
La violenza indirizzata contro gli uomini di fede non trova pause nemmeno con l’inizio del nuovo millennio. A pagare il prezzo più alto sono sempre coloro che mettono a disposizione la propria vita nelle terre di evangelizzazione a minoranza cattolica. Soltanto nel 2008, secondo i numeri diffusi dall’agenzia della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, sono stati uccisi 20 credenti: mons. Paulos Faraj Rahho, arcivescovo caldeo di Mosul (Iraq); 16 sacerdoti; 1 religioso e 2 volontari laici. La distribuzione per aree geografiche vede l’Asia con 8 morti, l’America 5, l’Africa 5 e l’Europa (Russia) 2. Senza contare la strage dei cristiani nella provincia di Orissa, in India, durante il mese di agosto. Un computo di morte senza fine, alimentato dagli 8 cristiani uccisi quest’anno da gruppi di integralisti musulmani che hanno dato fuoco a decine di case nella città di Gojra, nel Punjab orientale (Pakistan). E dalle decine di uomini e donne che muoiono nel mondo: di questi giorni la notizia della morte del missionario irlandese Jeremiah Roche, assassinato nella notte tra il 10 e l’11 dicembre da alcuni sconosciuti che sono entrati nella sua casa a Kericho, 250 chilometri da Nairobi (Kenya).

Il tributo di sangue pagato dai cristiani ha lasciato un impronta indelebile anche in Italia. Il 19 marzo 1994 muore a Casal di Principe, nel giorno del suo onomastico, don Giuseppe Diana. Due assassini lo uccidono a colpi di pistola, sorprendendolo mentre si accingeva a celebrare la messa nella chiesa di San Nicola di Bari. La colpa di don Diana era stata quella di opporsi con fermezza alla mafia, firmando tra l’altro un documento di denuncia di fenomeni criminali sul territorio: “La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana” pertanto “l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una ‘ministerialità’ di liberazione, di promozione umana e di servizio”. In Italia, la mafia diffusa capillarmente nel tessuto politico e sociale del paese è tra le cause principali del martirio cristiano. Un colpo di fucile caricato a pallettoni in pieno petto uccide don Graziano Muntoni la mattina del 24 dicembre 1998, in Sardegna, nel paese di Orgosolo dove è viceparroco. Il sacerdote era stato assessore del comune di Fonni e insegnante di educazione musicale alle scuole medie. Poi la chiamata a servire Cristo e difendere il suo popolo, con l’ordinazione sacerdotale nel 1990. Numerosi sono i martiri italiani che muoiono all’estero, impegnati nella diffusione della Buona Novella. Nato a Mantova il 10 aprile del 1946, padre Tullio Favalli diventa sacerdote missionario del Pime nel 1981. Spende quasi tutta la vita sull’isola di Mindanao (Filippine), operando nella missione della cittadina di Tulunan in una situazione pericolosa per la guerriglia e le scorribande dei gruppi armati. Padre Favalli vive con sofferenza i tormenti delle persone povere che lo circondano: “La vita e la morte si intrecciano come esperienza quotidiana e ci danno una concezione più realistica e più vera di noi essere mortali”. L’11 aprile 1985 padre Favalli corre in soccorso di una persona circondata nella sua abitazione da un gruppo di milizie locali e viene freddato con 21 colpi d’arma da fuoco. Anche la storia di don Aldo Menghi è significativa per l’attenzione nei confronti dei poveri. Don Menghi si consacra come fratello religioso nella Congregazione di scuole della carità Cavanis nel 1966 e lavora come infermiere nell’ospedale di Venezia. Nel 1975 è in Brasile, poi a Panama e infine in Ecuador dove promuove attività assistenziali per i meno fortunati. La sera del 16 luglio 1995, festa della Madonna del Carmine, viene rapito. Il corpo sarà ritrovato vicino alla discarica della città: don Menghi aveva pagato con la vita per aver tentato di salvare i giovani dalla delinquenza.
L’adesione al messaggio di Cristo interpella la totalità della persona nell’impegno gratuito per il prossimo. Un impegno fatto di gesti e progetti, sorrisi e lacrime. Ce lo ricorda Benedetto XVI, nell’omelia per la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo del 28 giugno 2007: “Come agli inizi, anche oggi Cristo ha bisogno di apostoli pronti a sacrificare se stessi. Ha bisogno di testimoni e di martiri come san Paolo: un tempo persecutore violento dei cristiani, quando sulla via di Damasco cadde a terra abbagliato dalla luce divina, passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì. Quanto attuale è oggi il suo esempio!”.

Pubblicato in: Rogate Ergo n. 2 - Febbraio 2010

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