lunedì 30 maggio 2011

La Bibbia nella storia del cinema

Pier Paolo Pasolini
“Datemi due pagine a caso della Bibbia e vi darò un film”. È con questo spirito che Cecil Blount De Mille, tra i primi e più conosciuti registi statunitensi, si avvicina alla ricchezza espressiva e simbolica contenuta nel Libro sacro. L’aforisma di De Mille racchiude una considerazione più generale sulle modalità attraverso le quali il cinema si è appropriato della Bibbia. Pervasa da una tensione drammatica che accompagna  molti passi della scrittura, la Bibbia possiede una caratteristica che la rende terreno fertile dal quale far germogliare adattamenti cinematografici: la forza narrativa. Il messaggio salvifico contenuto nel Libro, mirabile racconto del rapporto più intimo tra Dio e l’uomo, viene spesso rappresentato per mezzo di una storia: dalla creazione del mondo descritta nel Genesi alla vita di Cristo riferita dai Vangeli, la salvezza dell’umanità è affidata alla narrazione di fatti e vicende. Una narrazione che, nella semplicità, custodisce ed evoca il significato profondo della Scrittura.
Grazie a questa predisposizione naturale al “raccontare” ed “essere raccontata”, la Bibbia è divenuta presto oggetto d’interesse da parte del cinema. Per ragioni che probabilmente attengono alla necessità di nobilitare la nuova arte appena nata, già il cinema francese dei primi anni si ispira al racconto biblico producendo diverse pellicole tra le quali Passion Lumière (1897) di Georges Hatot, Christ marchant sur les eaux (1899) di George Méliès o Les Reomords des Judas (1909) di Henri Lavedan. Da quel momento iniziale, il cinema si appropria della Bibbia e la riproduce sul grande schermo in modo eterogeneo, spogliandola del valore simbolico e del messaggio inscritto nel testo o vivificandola nel significato profondo che la Scrittura serba e disvela. Semplificando la produzione cinematografica di tema biblico, si può effettuare una classificazione che serva al caso specifico differenziando due filoni principali di film: quelli di esplicito richiamo alla narrazione della Bibbia e quelli che si ispirano ad essa in maniera non diretta. 


Seguendo un ordine cronologico, le pellicole che rientrano nella prima categoria appartengono inizialmente ai pepla o sandal movie. Nel 1923 De Mille, icona del genere, realizza I dieci comandamenti. Prima megaproduzione biblica del regista, che investe un budget di oltre un milione di dollari, il film muto è strutturato in due parti: il prologo biblico, con la liberazione del popolo giudeo e la salita di Mosè sul monte Sinai, e l’episodio di ambientazione moderna, storia di due fratelli che si contendono la stessa donna. Ventitre anni più tardi, nel 1956, De Mille gira un remake dello stesso film mantenendo il titolo invariato e riutilizzando numerose sequenze del precedente, con una spesa di tredici milioni di dollari. Nelle sue opere De Mille traduce la Bibbia con una magnificenza spettacolare, frutto dell’impiego di tutte le tecniche di effetti speciali allora disponibili, e un vigore narrativo che sembrano riempire di suoni il silenzio necessario all’ascolto della parola sacra. Tuttavia, merito dei suoi lungometraggi è quello di far conoscere porzioni di Bibbia al grande pubblico non dimenticando, nell’altisonanza del suo cinema, momenti di delicata intimità. Tra i molteplici film biblici diretti da De Mille, meritano una menzione Il segno della croce (1932), Sansone e Dalila (1949) e Il re dei re (1961). Dello stesso periodo, due altre produzioni cinematografiche attingono al materiale offerto dalla narrazione biblica per confezionare una sceneggiatura ambientata in epoca romana: Quo vadis? di Mervyn LeRoy (1951), storia d’amore fra un patrizio e una cristiana al tempo della persecuzione di Nerone, e Ben Hur (1959) di William Wyler, magniloquente rappresentazione delle vicende dell’ebreo palestinese Ben Hur. Nel colossal di Wyler, realizzato trentacinque anni dopo l’omonima pellicola di Fred Niblo, trovano spazio alcune scene della Passione di Cristo. La Bibbia, dunque, si rivela miniera inesauribile da cui ricavare spunti per la realizzazione di film che talvolta esulano dall’elemento religioso, relegato in secondo piano, a vantaggio di una opulenza rappresentativa. Il 1966 è l’anno della pellicola realizzata da John Huston, La Bibbia. Regista ateo, Huston gira un lungometraggio sui primi 22 capitoli del Genesi prodotto da Dino De Laurentiis. Non eccellente quanto a giudizio complessivo, La Bibbia regala però riprese suggestive del diluvio universale con la costruzione dell’arca per salvare Noè, la sua famiglia e gli animali di ogni specie. Tra le pellicole di esplicito richiamo alla narrazione bibliche, occupano un posto di rilievo quelle che affrontano i Vangeli e la vita di Cristo. 

Nel 1957 Jules Dassin cura la regia di Colui che deve morire, ambientato in un villaggio greco dell'Asia Minore durante l'oppressione turca. Qualche anno più tardi, nel 1963, un regista italiano realizza un’opera di forte impatto contenuta nella pellicola Ro.Go.Pa.G.: Pier Paolo Pasolini gira il quarto episodio, dal titolo La Ricotta. Il sottoproletario Stracci viene scritturato per vestire i panni del buon ladrone in un film sulla Passione di Cristo. Durante una pausa dalle riprese, Stracci si abbuffa di ricotta per poi morire d’indigestione inchiodato alla croce. Sequestrato per vilipendio alla religione di Stato al momento della sua uscita nelle sale, La Ricotta mette in scena un ritratto profondamente intenso e religioso della figura del Redentore: Stracci, che muore sulla croce deriso da una troupe immorale e grottesca, è l’incarnazione del Cristo ucciso da un mondo superficiale e distratto. Un gioiello della produzione cinematografica di Pasolini che, l’anno seguente, realizza uno dei suoi capolavori: Il Vangelo secondo Matteo. Dice il regista: “Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente”. Nasce così un lungometraggio che mostra con l’occhio laico di Pasolini la vita del Cristo raccontato dall’Evangelista, mettendone in luce soprattutto l’umanità e regalando, nel misto di tristezza e solitudine che pervade il film, un’opera poetica e religiosa. La pellicola, che vale al regista numerosi premi, fa grande uso della macchina da presa a mano che, nel processo a Cristo, si identifica con la prospettiva di Pietro e non si pone mai al fianco del Redentore quasi ad indicare il limite ontologico cui il cinema deve attenersi. Tra gli altri film che parlano dei Vangeli sono da ricordare il pietoso Il Messia (1975) di Roberto Rossellini, l’opulento Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, il provocatorio L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese, l’imperdibile Jesus of Montreal (1989) di Denys Arcand, lo stentato I giardini dell’Eden (1999) di Alessandro D’Alatri e il crudele La passione di Cristo (2004) di Mel Gibson che, fra stuoli di accuse e polemiche, sceglie la strada di una rappresentazione eccessiva e truculenta per risvegliare le coscienze sopite dell’uomo contemporaneo.

Nel secondo filone di film, che trattano riferimenti alla Bibbia in maniera implicita, rientrano opere di grande sensibilità cinematografica. In una pellicola come Intolerance (1916) di David Wark Griffith, il regista intreccia quattro grandi storie, con un montaggio parallelo inedito per l’epoca, dando vita ad un affresco sulla condizione umana che si scaglia contro l’intolleranza e si ispira ad un sentire religioso in maniera diretta, nel terzo episodio sulla vita di Cristo, e indiretta, con i richiami all’intervento dal Cielo che fa cadere i fucili dalle mani dei soldati e abbatte le mura delle prigioni. Lasciati gli Stati Uniti e sbarcati in Danimarca, si assiste all’opera di Carl Theodor Dreyer, Dies Irae (1943). Con intensità vibrante, la pellicola narra dell'amore tra il figlio di un pastore protestante e la sua giovane matrigna, accusata di stregoneria dopo la morte del marito: afflitta dall’abulia dell’amante e schiacciata dalla condanna sociale, la donna sceglie di morire addossandosi un delitto di cui non è l’artefice. Nel silenzio di Dio, che è poi invocazione e preghiera del vecchio Absalon, Dreyer dipinge un dramma sulla fragilità dell’uomo che ha perduto la strada della Grazia. La ricerca di Dio è invece il tema centrale del lungometraggio di Ingrid Bergman, Il settimo sigillo (1956). Il viaggio del cavaliere Antonius Blok che, di ritorno dalle Crociate, è tormentato dai dubbi e accetta una partita a scacchi con la morte in un paese schiacciato dalla peste e dal fanatismo, è archetipo del percorso che l’uomo compie per trovare quel Dio che ridona fiducia al cavaliere per mezzo di una famiglia di saltimbanchi. Au hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson è, invece, una sublime pellicola che attraverso gli occhi disincantati di un asino racconta i vizi degli uomini e riflette sull’assurdità del male, mettendo in scena la vita e le sofferenze dell’asino Balthazar. Infine, è la volta del Decalogo (1988/1989) di Krzysztof Kieslowski, caso cinematografico che ha riscosso l’attenzione di studiosi e critica. Prodotto per la televisione e girato in circa due anni di lavorazione, il Decalogo è composto da dieci episodi ognuno corrispondente ad uno dei comandamenti. Tutte le storie, che hanno come filo conduttore un rione di Varsavia, non presentano vincitori o vinti e offrono uno spunto di riflessione unico sulla presenza/assenza di Dio e sul senso del peccato. Un’opera imponente che chiede di essere assaporata e meditata. Tra le altre produzioni degne di nota, si ricordano Come in uno specchio (1961) di Ingmar Bergman, Amore e rabbia (1969) di Lizzani, Bertolucci, Pasolini, Sacrificio (1986) di Andrej Tarkovskij e il più recente La leggenda del re pescatore (1991) di Terry Gilliam.

Pubblicato in: Rogate Ergo n. 02 - Febbraio 2008

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