mercoledì 10 novembre 2010

Registi del simbolico. Bergman, Dreyer, Bresson

Il settimo sigillo (1956)
Mettere insieme, unire. È questo il significato del termine simbolo, dal verbo greco “symballein”, con riferimento ad una pratica diffusa nel mondo antico e raccontata da Platone nel Simposio. Nella Grecia classica era consuetudine dividere una tessera di terracotta, un anello o una moneta e darne una metà ad un amico. Negli anni, conservando le due parti, le generazioni future potevano riconoscersi fra loro e unendo le metà divise ricordare il valore dell’amicizia. La storia del simbolo è radicata nello studio della semiotica. Nel tentativo di definire il segno, Sant’Agostino scriveva: “aliquid stat pro aliquo”, qualcosa che sta per qualcos’altro. E nella seconda metà dell’Ottocento, Ferdinand de Saussure approfondiva la riflessione individuando nel segno tre caratteristiche: significante, immagine acustica espressa nel suono o nel grafema, significato, rappresentazione semantica, e referente, oggetto concreto a cui il segno rimanda. Ma il simbolo non può essere identificato con il segno dal momento che, benché caratterizzato dalla logica del rimando, possiede un significato in sé che non si esaurisce nell’oggetto a cui esso rinvia. In questa accezione, la simbologia entra a pieno diritto nel solco di quella produzione cinematografica che non si limita alla rappresentazione del reale ma si preoccupa di introdurre ulteriori elementi di significato.

Tra i registi che più di altri si sono interessati all’orizzonte simbolico, Ingmar Bergman è uno dei maggiori esponenti. Figlio di un pastore, cresciuto in una ricca famiglia di Stoccolma, Bergman scopre fin da giovane i grandi enigmi della vita ed instaura con i genitori un rapporto complesso, aggravato dal carattere malinconico del padre predicatore. Per il dodicesimo compleanno riceve il primo proiettore e, da quel momento, scopre un mondo di evasione nel quale poter dare forma ai sogni che per lui avevano sostituito le immagini del reale.

La carica simbolica di Bergman trov ampia realizzazione nella pellicola Il settimo sigillo (1956). In una Danimarca devastata dalla peste, il cavaliere Antonius Blok è di ritorno dalle Crociate insieme all’agnostico scudiero Jons. Ad attenderli al loro arrivo sulla spiaggia è la Morte, che ha deciso di portare via Blok: “È già da molto che ti cammino a fianco, sei pronto?” chiede la Morte, “Il mio spirito lo è, non il mio corpo” risponde il cavaliere che decide di sfidarla a scacchi. La partita ha inizio e si svolge in più riprese, mentre Blok e lo scudiero attraversano il paese incontrando molte persone divise tra quante si sottopongono a dure forme di mortificazione per espiare i peccati e quante sono dedite alla pratica dei piaceri. Nel percorso, i due fanno conoscenza di una famiglia di saltimbanchi che sembrano non risentire del dramma che attanaglia la Danimarca e vivono di amore e serenità. L’unione di Jof, Mia e il bambino spingerà Blok verso una rinnovata fede e lo avvicinerà a Dio. Ma nella foresta, di notte, la Morte si avvicina al cavaliere e ai suoi nuovi compagni per prenderli tutti con sé. E così Blok, nel corso dell’incontro di scacchi, rovescia intenzionalmente i pezzi permettendo ai saltimbanchi di scappare mentre la Morte riordina con inganno le figure e dà scacco matto al cavaliere. Memorabile la scena finale con Jof che, risvegliatosi con la famiglia sulla riva di una spiaggia, vede in lontananza la Morte che porta via Blok insieme ad altri che la seguono in una danza verso l’ignoto: “Mia, li vedo! Mia, li vedo! Laggiù contro quelle nuvole scure. Sono tutti insieme…e la morte austera li invita a danzare. Vuole che si tengano per mano e che danzino in una lunga fila. In testa a tutti è la morte, con la falce e la clessidra…danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto, mentre la pioggia racquieta i loro volti e terge le loro guance dal sale delle lacrime”. Il finale simbolico che Bergman sceglie per Il settimo sigillo è aperto alla speranza: sono gli umili e i semplici, rappresentati nei personaggi dei giocolieri, a salvare le proprie vite. Tutta la pellicola è una metafora del rapporto fra l’uomo e Dio, un incontro fatto di tensione e ricerca come testimoniano le parole del cavaliere Blok: “Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde dietro mille e mille promesse e preghiere sussurrate ed incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me e sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?”. Ma Il settimo sigillo è un film allegorico che mette in scena anche l’atavico timore degli uomini di fronte al mistero della morte: “Il fatto che la morte rappresentasse la fine dell’esistenza – dice il regista -, l’ingresso in una porta oscura, era qualcosa che non potevo controllare, sistemare o prevedere. Era una sorgente costante di orrore. Allora ho raccolto il mio coraggio e ho raffigurato la Morte come un pagliaccio bianco, una figura che parlava, giocava a scacchi e non aveva segreti. È stato il primo passo per combattere la mia monumentale paura della morte”. 

Dopo dieci anni di inattività cinematografica, Carl Theodor Dreyer realizza una pellicola densa di simbolismo religioso, Ordet (1955). Morten Borgen è il patriarca di una benestante famiglia di un villaggio dello Jutland. Il primo figlio, Mikkel, è sposato e non credente mentre il secondo, Johannes, è uno studente di teologia che agli occhi di tutti sembra aver perso il lume della ragione, con il suo profetizzare e predicare come fosse la reincarnazione del Salvatore: “Guai a coloro che non credono perché solo quelli che hanno la fede saranno ammessi nel Regno dei Cieli. Amen”. Ad aggravare il momento di crisi spirituale vissuto da Morten è però il figlio più piccolo, Anders, che è in procinto di sposarsi con la figlia del sarto Peter, famiglia appartenente ad una diversa setta protestante. Il clima teso dei Borgen è alleviato da Inger, moglie di Mikkel, madre di due bambine e incinta del nipote maschio tanto atteso dal vecchio Morten. Nel momento in cui esplode una violenta lite in casa tra il patriarca e il sarto, Inger viene colta dalle doglie e partorisce il bimbo morto. Dopo qualche ora di agonia, anche la donna si spegne. Il dramma improvviso colpisce l’animo di tutti i presenti, restituendo apparentemente la ragione a Johannes che smette di elargire le sue prediche singolari. E mentre gli uomini sono raccolti in preghiera intorno alla salma che sta per essere chiusa nella bara, Johannes pronuncia la Parola in nome della fede limpida e speranzosa della figlia della donna morta. Inger resuscita e tornata a respirare grida: “La vita! La vita!”. Con Ordet Dreyer contrappone due visioni della fede che sembrano essere chiuse in se stesse, da una parte il pazzo Johannes e dall’altra i personaggi che compongono la vicenda. Ma la pellicola del regista danese suggerisce in modo simbolico l’idea che soltanto la fede di coloro che credono con cuore sincero può condurre a Dio, come afferma lo stesso Dreyer: “La fede dei semplici muove le montagne e resuscita i morti perché è fede nella vita e nell'amore”. Per comprendere la struttura del film non si può prescindere dalla storia personale del regista. Venuto al mondo clandestinamente da una madre che svolge lavori umili e si prostituisce per sopravvivere, il piccolo Dreyer viene affidato ad una coppia di genitori adottivi che lo crescono con attenzione ma senza amore. Anni più tardi scopre la causa della morte della madre, spentasi nel tentativo di procurarsi un aborto, e il sentimento di amore assoluto nei confronti di quella donna sarà filo conduttore di tutta l’opera del regista.

Nel XII secolo Agostino di Dacia compone il distico divenuto famoso nella tradizione medievale cristiana, che riassume i quattro livelli di lettura della Bibbia: “Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia”. Si capisce allora l’importanza del linguaggio allegorico per la comprensione del significato profondo della Scrittura, che necessita di figure e immagini simboliche che possano far vibrare il messaggio di Dio nell’animo umano. È così che anche un asino può diventare metafora e spunto di riflessione sull’uomo e la religione. Balthazar è un ciuco compagno di giochi del piccolo Jacques e dei suoi amici durante le vacanze in un paese basco. Quando il giovane torna a Parigi, Balthazar diventa proprietà della coetanea Maria che, legata da una promessa d’amore a Jacques, suscita la gelosia del guascone e teppista Gèrard. Dopo averla circuita, Gèrard compie ogni sorta di angheria sull’asino per poi lasciarlo ad un alcolizzato, Arnold, che di lì a breve muore. Balthazar finisce prima in un circo, esibito per le sue presunte doti matematiche, e poi nelle mani di un meschino produttore di acqua minerale, aggiogato alla ruota di un pozzo. Soltanto alla fine, l’asino riesce a tornare di proprietà di Maria. E quando Jacques torna in paese, per scagionare il padre della ragazza indagato dalla polizia, i due decidono di sposarsi. Gèrard, messo a conoscenza della decisione da Maria, la violenta insieme al branco dei suoi amici. Lei abbandona il paese e quando il padre muore Balthazar resta alla vedova. Finché un giorno Gèrard e un compagno rubano l'asino, per sfruttarlo nel contrabbando di merce. Al confine, Balthazar viene ferito dai finanzieri e muore in mezzo a un gregge di pecore che gli si fanno attorno. Au hasard Balthazar (1966), una delle opere più importanti del regista francese Robert Bresson, è pellicola di ampio respiro simbolico. L’asino Balthazar è, sotto molti aspetti, raffigurazione dell’agnello sacrificale o animale della natività. Le vicende rimandano ad un preciso episodio biblico, quello dell’asina di Balaam (Numeri, 22) che avendo scorto l’Angelo del Signore sulla strada per Balak devia per tre volte il percorso del padrone. Percossa da Balaam, l’asina subisce le umiliazioni che toccano in sorte a Balthazar. Ma Dio dischiude il suo disegno a Balaam e apre i suoi occhi facendolo pentire, mentre la violenza che colpisce Balthazar è un veleno mortale che gli uomini distribuiscono anche ai propri simili. Soltanto alla fine l’asino viene accolto dalle pecore, che si moltiplicano per stargli vicino, negli ultimi respiri della sua vita.

Pubblicato in: Rogate Ergo n. 11 - Novembre 2008

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