mercoledì 14 luglio 2010

Spiritualità nel cinema laico

Centochiodi (2007)
Presenza, assenza. Pienezza, vuoto. Il desiderio di spiritualità, l’anelito di trascendenza che aspira alla comprensione dell’Altro, non lascia esente l’impegno del cinema laico. Se la Chiesa è chiamata al compito di comunicare la buona novella all’uomo, il percorso tracciato da artisti laici si rivela spesso illuminante per capacità d’introspezione e riflessione sul mistero di Dio. È singolare notare come nel libro della Genesi, Dio abbia parlato ad Adamo prima ancora di averlo creato. Adamo che, oltre il distinguo fra maschio e femmina, rappresenta l’umanità intera destinata a comunicare con Lui. Una responsabilità importante dunque, quella custodita nella Bibbia: essere capaci di ricostruire il dialogo con Dio e, al tempo stesso, divenire profeti della sua Parola. Ma, avvisa Platone, il compito di comunicare il mistero è assai impegnativo: “Sette anni di ricerca silenziosa sono indispensabili ad un uomo per apprendere la verità; ma gliene occorrono quattordici per imparare come comunicarla ai suoi simili”.
In non pochi casi, questa sfida di avvicinarsi al sacro, sollecitando le domande profonde che interrogano ogni uomo, viene raccolta da registi laici. Talvolta non credenti, ma sempre in ricerca. È il caso di Saverio Costanzo, che ha diretto il film In memoria di me: “Io stesso non credo di credere”. Uscito lo scorso marzo generando un inutile coro di proteste omofobe, In memoria di me narra lastoria del giovane Andrea (Christo Jivkov) che, entrato in noviziato per diventare sacerdote, si trova a condividere la quotidianità con gli altri novizi, i Padri superiori e i sacerdoti anziani. Tratto dal libro autobiografico di Furio Monicelli, “Il gesuita perfetto”, il film si svolge nei tetri corridoi di un monastero sull’isola di San Giorgio, a Venezia. In questo luogo lontano dalla vita mondana Andrea si profonde negli esercizi spirituali, tormentato da una vocazione che non trova risposta.

Nell’incontro con un altro novizio, Zanna (Fausto Russo Alesi) che attacca la Chiesa accusandola di aver sempre utilizzato la parola di Dio per il suo tornaconto, Andrea si ritrova a confrontarsi con una fede che non è salda come sperava. L’amicizia con Zanna si stringe lungo un percorso di silenzio e meditazione che, nonostante il sostegno del Padre superiore (André Hennicke), lo conduce alla comprensione della sua inadeguatezza in un luogo che non rispecchia la fede che cerca. Nel film, il viaggio spirituale che il protagonista intraprende non è mai conclusivo e la ritrovata libertà, che sembra potersi realizzare al di fuori delle mura del monastero, non è acquiescenza dell’anima ma ricerca incessante: come ci ricorda Miguel de Unamuno, “la fede che non dubita non è fede”. Saverio Costanzo dirige una pellicola asciutta che, immersa in un’atmosfera cupa echeggiante le tinte del genere thriller, evita i luoghi comuni e le facili derive nell’affrontare un tema importante come quello della vocazione. Peccando nel controllo della musica, a tratti invasiva, il regista dipinge un affresco nel quale tratteggia con vigore istanze sul potere della religione domandando cosa si è costretti a fare nel nome della fede, come nella sequenza dell’abbandono del convento da parte di un novizio e la menzogna del Padre superiore nel riferire la notizia agli altri. Eppure, nel silenzio che attraversa il film, non dimentica di lasciare la fede a quello spazio intimo di cui ciascuno è custode. In memoria di me non vuole condurre lo spettatore ad un porto. Ma lasciarlo in mare aperto.

Quasi in contemporanea con il lungometraggio di Saverio Costanzo, è la pellicola diretta da Ermanno Olmi: Centochiodi. Ultimo lavoro di cinema narrativo di messa in scena, Centochiodi è la storia di un professore (Raz Degan) dell’Università di Bologna che, durante la stesura di un’opera rivoluzionaria per il rapporto tra fede e filosofia, abbandona tutto e si rifugia sulle rive del Po dove inizia una nuova vita insieme alla comunità di persone semplici che abita il paese nelle vicinanze di San Giacomo. “Ma i libri, pur necessari, non parlano da soli”, è la frase da Raymond Klibansky che precede le immagini di Centochiodi, je accuse nei confronti del sapere istituzionalizzato e della conoscenza incancrenita che non lascia l’uomo libero di realizzare se stesso. Il film inizia come un giallo autentico: una ripresa dall’alto della sala interna della biblioteca mostra cento libri, fra manoscritti e testi antichi, fissati al pavimento con dei chiodi. Sembra che si debba assistere alla soluzione del mistero, scoprire chi è l’artefice del misfatto. Invece la pellicola prende una direzione inaspettata, tracciando i contorni di una parabola cristologica contemporanea. Riguardo alla scelta di chi fosse il protagonista del suo congedo dal cinema narrativo, Olmi dichiara: “È  scontato dire ‘il Cristo’? Sì: il Cristo Uomo, uno come noi, che possiamo ancora incontrare in un qualsiasi giorno della nostra esistenza: in qualsiasi tempo e luogo. Il Cristo delle strade, non l’idolo degli altari e degli incensi. E neppure quello dei libri, quando libri e altari diventano comoda formalità, ipocrita convenienza o addirittura pretesto di sopraffazione”. Il sapere vuoto, quello che non porta alla sapienza del cuore, è la condizione disumana e alienante denunciata dal regista: “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè, una carezza”, dice ad un tratto il protagonista. Nella riscoperta della vita semplice e degli affetti spontanei, si compie l’allegoria proposta da Olmi. Fra apprezzabili spunti riflessivi - come nel dialogo fra il professore e il curatore della biblioteca: “Nel giorno del Giudizio, sarà Dio a dover rendere conto della sofferenza degli uomini” – e la struggente musica del “Non ti scordar di me”, Centochiodi rischia a tratti di naufragare nelle acque placide del Po posandosi tenuemente sul ritratto di una comunità rurale e di un’esistenza all’insegna di una esasperata semplicità. E alcuni dialoghi, come quello fra il professore e un commissario dei Carabinieri, rasentano con imbarazzo l’insensatezza del già detto. Se la parabola cristologica non contiene la pienezza che si attendeva, la mano di Olmi conferisce tuttavia una gravità che spinge alla riflessione su temi forti e muove alla riflessione. Dice il regista: “Giungono da ogni parte grida di guerra e di dolore quasi fossero un tributo da pagare a un Dio assurdo di distruzione, che semina odio fra gli uomini. Dov’è il Dio di pace?”.

Presentato fuori concorso alla 63ª Mostra del cinema di Venezia, L’isola, atteso film di Pavel Lunghin in uscita nelle sale italiane verso ottobre, è un’opera di ispirazione mistica. Laico, laureato in linguistica matematica ed applicativa all’Università statale di Mosca, Lunghin dirige una pellicola nella quale, come sottolinea lo stesso Patriarca Alessio, “i problemi della vita spirituale e della salvezza sono posti in primo piano e gli spettatori che, forse per la prima volta, si sono scontrati con questi problemi, sono indotti a una profonda riflessione”. L’antefatto. Durante la seconda guerra mondiale, il giovane marinaio (Piotr Mamonov) di una nave sovietica intercettata dai tedeschi spara al suo comandante per avere salva la vita. Trent’anni dopo, in un piccolo convento ortodosso sperduto su un’isola del Mar Bianco, il monaco eremita Anatolij, nome assunto dal marinaio omicida, è conosciuto per le sue capacità taumaturgiche, preveggenti ed esorcistiche. La fama di Anatolij spinge un ammiraglio della marina sovietica a portargli la figlia malata che nessun medico è riuscito a guarire. Il monaco riconosce nell’uomo il capitano che da giovane credeva di avere ucciso. Guarisce la figlia e ottiene il perdono. Per morire in pace. Passato in sordina alla kermesse veneziana e acclamato in patria, L’isola è un film profondamente religioso, permeato da un senso di spiritualità e contrizione perfettamente incarnato nella figura di un assassino che, stretto dal dolore del delitto compiuto, offre la sua vita a Dio. A chi gli chiede il motivo della svolta religiosa data al suo lavoro creativo, Lunghin risponde: “Veramente non la so spiegare neanch’io. È semplicemente un film sul fatto che Dio esiste. Viene il momento in cui questo diventa importante”. Il monaco Anatolij, cui Piotr Mamonov conferisce il sofferto volto dell’espiazione, ricorda tanto il dostoevskijano Raskol’nikov protagonista di “Delitto e Castigo”. Anche ne L’isola, il tema del castigo è il perno attorno al quale ruota il faticoso percorso che conduce al pentimento. Per Lunghin, che molto risente della tradizione letteraria russa ed in particolare dell’opera di Dostoevskij, l’idea che il perdono e la grazia giungano soltanto a conclusione di un percorso di sofferenza è centrale: non c’è redenzione senza dolore, non c’è salvezza senza purificazione. Una purificazione che si compie nella contrizione dell’animo che riconosce l’orrore del peccato commesso. E soltanto alla fine di un lungo viaggio, può aspirare alla pace.

Pubblicato in: Rogate Ergo n. 8/9 - Agosto/Settembre 2007

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