mercoledì 6 gennaio 2010

Sguardo senza confini. Intervista con don Franco Lever

Don Franco Lever
Sguardo senza confini. Intervista a don Franco Lever “L'aspetto che più colpisce è la radicalità di adesione a Cristo. Paolo è letteralmente catturato da un Amore che salva e libera da paure e costrizioni. Questo senso di appartenenza e di libertà gli conferisce un'energia che lo porta ad avere uno sguardo senza confini, a lasciare Gerusalemme per annunciare a tutti il messaggio di Salvezza e di Resurrezione che libera l'uomo e che sarà in grado di rivoluzionare la storia”. Don Franco Lever, decano della Facoltà di scienze della comunicazione sociale della Università Pontificia Salesiana, riassume così la vocazione di San Paolo per l'annuncio del Vangelo.

Don Lever, perché il frequente ricorso alla metafora da parte di Paolo?
“La metafora è uno degli strumenti più potenti a nostra disposizione per esplorare l'ignoto. Quando ci troviamo di fronte alla frontiera del non conosciuto spingiamo il nostro sguardo oltre la barriera dicendo: «Quello che sto intravedendo è come... assomiglia a...». Stabiliamo un rapporto con quanto conosciamo, puntando però tutta l'attenzione sulle differenze: «È questo, ma è molto di più». Questa è la forma normale che abbiamo per esplorare la densità più profonda di ciò che siamo e per parlare di Dio. E Paolo lo sa: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio...» (1 Cor 13,12)”. 


Che importanza riveste in lui il “medium” della scrittura?
“L'epoca in cui sono vissuti Gesù e gli apostoli è segnata da una crescente importanza della scrittura rispetto alla comunicazione orale. Gesù non scrive il suo messaggio, ma lo affida alla comunità degli apostoli che «educa» con delicatezza e pazienza. Gli apostoli restano fedeli a questo metodo perché si tratta di trasmettere un vissuto, non solo idee: danno vita a nuove comunità, le quali, a loro volta, generano altre comunità. Per tenerle unite, per sostenerle nella fede, per garantire la genuinità della trasmissione della Parola del Maestro si ricorre presto anche ad un'altra forma di comunicazione, la scrittura. Ed è Paolo il primo ad usarla per mantenere vivi i contatti con le comunità che ha fondato, per guidarle, per accompagnarle nella comprensione più profonda della novità di Cristo. Ho qualche dubbio che noi oggi siamo altrettanto attenti ed efficaci nell'uso delle attuali forme di comunicazione. Temo che saremo accusati di pigrizia nel momento in cui ci verrà chiesto conto dell'uso fatto dei talenti a nostra disposizione”.

Cosa dire oggi del discorso all'Areopago? 
“Da alcuni anni si fa ricorso a questo episodio per dire che anche noi oggi dovremmo agire come ha fatto Paolo ad Atene. Confesso che al riguardo mi rimane qualche perplessità. È indubbio che Paolo, da bravo retore, parli agli ateniesi in un modo che affascina i suoi interlocutori ma, nonostante tutta la sua arte, in quell'ambiente e con quel pubblico, non convince nessuno. Quando propone la novità di un Dio che ridona la vita, viene interrotto dalle risate dei suoi ascoltatori: «Su questo ti ascolteremo un'altra volta» (Atti, 17, 32). Con questo non voglio dire che non si debba lavorare perché il messaggio cristiano sia lievito della cultura contemporanea. Osservo soltanto che l'efficacia di Paolo poggia sul suo lavoro nelle comunità e per le comunità, con le quali mantiene sempre vivo il contatto. La sua comunicazione è costruzione di rapporti”.

Nella sua missione l'apostolo sostenne anche momenti di tensione...
“Quando è in gioco un valore importante, Paolo non evita il conflitto e non ne ha paura: lavora per risolverlo, perché il conflitto, gestito in modo corretto, offre la possibilità di superare la situazione di crisi. Ad Antiochia si oppone a Pietro «a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11); con quanti sostengono l'obbligatorietà della circoncisione dissente e discute animatamente (Atti 15,2) al punto da provocare l'assemblea di Gerusalemme, il primo dei Concili. E se è arrivato a Roma è perché non ha mai evitato di «dialogare» con la comunità ebraica a cui sentiva di appartenere. Il modo in cui Paolo affronta i conflitti sarebbe un argomento di studio assai interessante, perché i conflitti ci sono anche oggi ed è necessario trovare degli spazi in cui le diverse posizioni si manifestino, si incontrino, si risolvano”.

Infine, i suoi viaggi, sempre con la passione di comunicare...
“Ma è solo l'aspetto esteriore della sua intensa attività di apostolo. Non viaggia per vedere luoghi; non va ad Atene per la fama dei suoi monumenti; a Roma ci arriva prigioniero. Si sposta solo e sempre per annunciare Cristo, per incontrare persone, per ritrovare i fratelli. Là dove si ferma, lavora per costruire la comunità. Da questo punto di vista trovo un'analogia con l'incessante viaggiare di Giovanni Paolo II. L'aspetto più appariscente ci è sempre stato mostrato dai mass media. Ma c'era un altro lavorio in atto nelle comunità che attendevano l'arrivo del Papa, un'intensa attività che impegnava la comunità a riscoprire se stessa, a giudicare la sua fedeltà, a rinnovare la sua azione missionaria”.

Pubblicato in: Sir Italia n. 81 del 21 novembre 2008

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