giovedì 14 luglio 2011

Soldati in Vietnam
1898, porto dell’Avana. Il cacciatorpediniere statunitense Maine, ancorato in acque cubane, esplode misteriosamente causando la morte di 260 persone. La stampa, ed in particolare il “New York Journal”, diffonde accuse e voci di sabotaggio rivolte agli spagnoli contribuendo a generare un clima di aspettativa per un intervento armato che miri a liberare Cuba dal dominio iberico. Su pressione dell’opinione pubblica il presidente William B. McKinley approva una risoluzione del Congresso che intima l’immediato ritiro delle forze militari spagnole dall’isola e, di fronte al rifiuto opposto da Madrid, giunge all’attesa dichiarazione di guerra. Per la prima volta, il potere dei media gioca un ruolo fondamentale nel dare inizio ad un evento bellico ed offre lo spunto per riflettere sull’importanza che l’informazione ricopre nella narrazione della realtà.
Guerra e mass media sono legati da un rapporto profondo. Fatta eccezione per la stampa, la natura stessa dei mezzi di comunicazione di massa è debitrice nei confronti delle tecnologie sviluppate in ambito militare: la radio nasce per esigenze di comunicazione tra soldati, la televisione si sviluppa a partire dal radar e internet è figlio di un progetto avviato dal Ministero della Difesa statunitense per consentire il passaggio di informazioni anche in caso di attacco nucleare. Il legame si intreccia poi ancor di più per ragioni economiche e commerciali, dal momento che la guerra è per i media un terreno fertile dal quale raccogliere materiale che possa essere venduto al pubblico. A queste, si aggiungono anche le logiche giornalistiche che regolano il sistema: utilizzati per definire l’idoneità di un fatto a trasformarsi in notizia, i criteri di notiziabilità” rispondono a parametri di tempo, attualità, pubblico interesse, vicinanza fisica, importanza dei protagonisti e inusualità nonché conflittualità, emotività e drammaticità dell’evento narrato. Sono queste premesse che rendono evidente l’interesse mediatico per i fatti di guerra, rispetto ai quali l’intera collettività mostra una maggiore domanda di informazione che si trasforma in un surplus monetario per le imprese dei media. Ma la funzione svolta dal sistema informativo si estende anche al controllo e al racconto di quanto accade nelle sale dei bottoni e, soprattutto, nelle zone di conflitto.


La guerra di Crimea del 1854 segna l’inizio di una nuova consuetudine: per l’occasione il “Times” decide di spedire al fronte William Howard Russell, di origine irlandese, inviato in prima linea per redigere un resoconto fedele degli avvenimenti. Con i suoi reportage Russell provoca le prime tensioni fra e politica, componendo articoli che mostrano le difficoltà patite dall’esercito inglese e contraddicono la sensazione di serenità ritratta nelle fotografie commissionate dal governo. Inizia così una relazione di prossimità e lontananza che si estenderà fino ai nostri giorni con esempi quali la guerra di Corea e del Vietnam, che vedono i giornalisti schierati in prima linea e meno legati ai condizionamenti politici, o la tragedia dell’11 settembre 2001, che provoca un’immediata reazione di vicinanza dei media rispetto alle scelte interventiste dell’amministrazione Bush per dare vita soltanto in un secondo momento ad una pluralità di voci su un conflitto ormai avviato. Ma non tutte le guerre meritano di essere trattate allo stesso modo. Al di là dei casi incresciosi della Bosnia-Erzegovina e del Rwanda, conflitti che hanno mostrato il lato negativo e fuorviante dei media, c’è una parte di mondo in armi che non trova voce nel mainstream informativo. Ad oggi, sono circa 30 le guerre in corso e di queste soltanto un numero limitato riceve copertura da parte dei media. In particolare l’Africa sembra essere un continente dimenticato: migliaia di persone morte e rifugiate per via di ostilità che si protraggono ormai da decenni, non riescono a trovare il dovuto spazio nel flusso d’informazione degli organi di stampa. Un meccanismo che si verifica per motivi economici, culturali e soprattutto di ingerenza dell’agenda politica nell’orientare i media ad interessarsi di determinati conflitti soltanto quando ci sono interessi in gioco.

Nel dualismo tra guerra e mass media è significativo notare anche l’attenzione che questi ultimi dedicano agli operatori di pace. Insignita del premio Nobel per la Pace nel 1979, Madre Teresa di Calcutta è l’esempio dell’interesse che gli organi di informazione possono riservare a coloro che impegnano la propria vita in prospettiva di un mondo migliore. È proprio grazie ad un servizio televisivo, realizzato da Malcolm Muggeridge della BBC nel 1969, che la beata di Skopje ha raggiunto una fama internazionale per il suo impegno incondizionato a favore dei più poveri. Durante le riprese del documentario, si racconta che una parte della pellicola si fosse rovinata a causa delle precarie condizioni di illuminazione. Ma in fase di montaggio tutto girò alla perfezione e lo stesso Muggeridge, gridando al miracolo, si convertì al Cristianesimo.
La figura di Teresa non è la sola ad aver richiamato l’attenzione dei media. Per la sua spontaneità e capacità di comunicare attraverso il linguaggio del corpo, Giovanni Paolo II è stato il primo “Papa mediatico” della storia. Attento e fiducioso nei mass media, da lui stesso definiti “primo areopago del tempo moderno” nell’enciclica Redemptoris Missio, Giovanni Paolo II si è impegnato per la promozione degli strumenti di comunicazione all’interno della Chiesa ed è stato lui stesso grande comunicatore in ogni momento della sua esistenza: “Così come si è mostrato forte, energico, vigoroso nei primi anni del pontificato, allo stesso modo lo ha fatto nella malattia, quando il corpo si faceva più debole. E fino all’ultimo istante - spiega Mauro Buonocore -, la tv era lì a sottolineare l’eccezionalità della persona di Giovanni Paolo II, a disegnare un’aureola mediatica intorno al corpo di Karol Wojtyla”. Ma Giovanni Paolo II è stato anche il “Papa dei gesti” che ha saputo catturare l’attenzione di media e pubblico: la frase pronunciata dalla loggia di San Pietro dopo l’elezione, l’abbraccio ad un gruppo di persone disabili in occasione della cerimonia di inizio pontificato o il cappello piumato posto sul capo nel viaggio in Nuova Guinea sono segni di un Papa che ha fatto della fisicità e dell’apertura nei confronti di ogni uomo la cifra della sua missione terrena.
Dietro a questi grandi personaggi ci sono però tanti operatori di pace che non trovano la ribalta dei potenti media commerciali ma si ritagliano ugualmente uno spazio nel panorama variegato dell’informazione. Scriveva Martin Luther King, uomo di pace e nemico di ogni oppressione: “Ignorare il male equivale ad esserne complici”. Un monito per tutti coloro che, attraverso gli strumenti di comunicazione, hanno il compito di servire il prossimo e cooperare per la costruzione di un mondo più giusto.

Pubblicato in: Rogate Ergo n.12 - Dicembre 2008

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