tag:blogger.com,1999:blog-7998748708791558602024-03-13T12:33:38.561+01:00Festina lenteIl blog di Riccardo BenottiRiccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.comBlogger25125tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-71368643128180540422012-03-27T15:45:00.000+02:002012-03-27T15:55:18.679+02:00Uno sforzo per l'equità<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-PDOMqy3HbX8/T3HEMsIFqII/AAAAAAAAAGk/AnUkIbyrOO4/s1600/Disabili.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="268" src="http://3.bp.blogspot.com/-PDOMqy3HbX8/T3HEMsIFqII/AAAAAAAAAGk/AnUkIbyrOO4/s320/Disabili.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Crisi economica e disabilità</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Lo sviluppo, se non è accompagnato da una politica di welfare, tende ad essere disgregante”. Ne è convinto <b>Agostino D’Ercole</b>, presidente dell’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla) e docente universitario, intervistato dal Sir per riflettere sulle politiche sociali indirizzate al mondo della disabilità in un momento di grave crisi economica.</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>La spesa sociale è una voce di bilancio che, in tempi di crisi, subisce spesso i tagli più significativi... </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Non si può pensare di sviluppare il Paese se non si punta a un rafforzamento del welfare con investimenti su capitale umano, coesione sociale e capacità di promuovere le buone pratiche all’interno di un sistema ‘cannibale’ che tende a generare sempre maggiore marginalità. Come Terzo settore, stiamo portando avanti l’idea della crescita del welfare come prerequisito per la crescita dell’Italia. Non si deve aspettare di avere le risorse per garantire i diritti la cui tutela favorisce la crescita e non è un costo, se correttamente interpretata. Si tratta di una questione semplice e, allo stesso tempo, drammatica. I fondi nazionali sono trasferimenti economici ai Comuni, dunque servizi per i cittadini la cui spesa si attesta allo 0,42% del Pil. Nel 2007 la somma di tutti i fondi sociali ammontava a circa 1,5 miliardi di euro. Da qui al 2013, si prevede una riduzione a circa 144 milioni di euro con una diminuzione di oltre dieci volte. Ad esempio, il fondo per le politiche sociali passerà da 1 miliardo nel 2007, a 45 milioni nel 2013”. </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quali conseguenze potrà avere l’azzeramento del Fondo per la non autosufficienza? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“I numeri danno la dimensione della situazione. Il Fondo per la non autosufficienza che voleva essere uno sforzo per aiutare le famiglie, vero soggetto di assistenza per le persone disabili o anziane con difficoltà, a tre anni dalla sua istituzione è stato azzerato. È un problema devastante perché ricade sulle scelte delle Regioni. Qualsiasi politica che abbia un senso, oggi, deve mantenere almeno il livello di assistenza attuale. E solo questo obiettivo sembra essere già straordinario perché i Comuni e le Regioni non sono in grado di garantirlo, con ricaduta sulle famiglie e delega alle associazioni di volontariato e promozione sociale chiamate a farsi carico di un impegno forse improprio ma che tendono a svolgere per missione. Da una recente indagine del Censis, alla quale ha partecipato l’Aism, è emerso che la famiglia è il perno su cui regge l’assistenza anche per le persone in gravi condizioni. E qui non parliamo di politiche per la vita indipendente ma della semplice possibilità di vivere dignitosamente nel proprio alloggio. Spesso sono le associazioni che fanno da surroga nei confronti del servizio pubblico”. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Dal suo osservatorio, quali sono i principali ostacoli che incontrano le persone con disabilità e le loro famiglie? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Anzitutto la riduzione dell’assistenza a domicilio, per le persone in condizioni gravi e gravissime. Quindi il venire meno della possibilità di ridurre l’isolamento perché tutti i servizi di trasporto sono, in genere, a carico del pubblico. La decurtazione dei fondi per il trasporto comporta un isolamento maggiore e questo è un grave problema. L’assistenza e i servizi alla persona tendono poi a ridursi e il corredo della politica sanitaria, come la riabilitazione, diventa un’ulteriore difficoltà. Tra i vari azzeramenti, c’è anche quello degli incentivi all’inserimento lavorativo. Il percorso della legge 68/99 è di fatto svuotato senza stimoli economici e tutte le persone con disabilità, nel momento in cui si affacciano alla vita produttiva, avranno ancora maggiori difficoltà di accesso”. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>La ridefinizione del nuovo Isee, prevista dal decreto “Salva Italia” e successivo emendamento, rischia di mettere in discussione il diritto di accesso all’assistenza? Non si corre il rischio che i diritti vengano interpretati come privilegi? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“La sensazione è che il governo non voglia fare cassa sulla disabilità. Tutto dipenderà, però, dalle risorse disponibili. L’indennità di accompagnamento è un tentativo, di basso profilo, per riportare le persone in condizioni di pari opportunità e non avrebbe né senso né logica ricondurla al reddito. In alcuni casi, infatti, potrebbe convenire paradossalmente essere assistiti piuttosto che produrre lavoro. Bisogna definire, invece, i diritti di cittadinanza. Soltanto allora, in un contesto che rimuove la disuguaglianza determinata dalla disabilità, avrebbe senso pensare all’introduzione dell’Isee e, per questo, è richiesto uno sforzo in nome dell’equità. È importante, inoltre, utilizzare degli strumenti flessibili perché il mondo della disabilità presenta profili diversi”. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quale ascolto trovano da parte della politica le richieste delle associazioni che, come l’Aism, operano quotidianamente al fianco delle persone con disabilità? </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Da parte del governo c’è disponibilità e ascolto, nell’ambito dei limiti di cassa, sebbene si pongano interrogativi su cosa sia possibile fare. Comuni e Regioni, invece, da un lato, colgono la necessità della tenuta del blocco sociale e le esigenze del mondo della disabilità ma, dall’altro, la mancanza di risorse è talmente cogente che non sono in grado di rispondere. Si manifesta così una difficoltà estrema di programmazione per i prossimi due anni e la delega dell’assistenza al volontariato diffuso, con il rischio che alcune zone del Paese restino scoperte e si aggravi il divario tra Nord e Sud”.</span><br />
<br />
<span style="font-size: x-small;">Pubblicato in: <a href="http://www.agensir.it/pls/sir/v4_s2doc_b.servizi?tema=Anticipazioni&argomento=dettaglio&id_oggetto=236566" target="_blank"><strong>Sir</strong></a> - 23 marzo 2012</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-40814502158438444882012-02-14T09:10:00.000+01:002012-03-27T15:57:21.487+02:00Disabilità e cittadinanza: un'Italia invisibile<div style="text-align: left;">
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-_OjKd7Qglbs/Tzy85uIxPKI/AAAAAAAAAGY/reiH-tz3ZQ0/s1600/autismo.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-_OjKd7Qglbs/Tzy85uIxPKI/AAAAAAAAAGY/reiH-tz3ZQ0/s1600/autismo.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Disabilità e cittadinanza</td></tr>
</tbody></table>
</div>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> È un’Italia invisibile, sottratta alla responsabilità della politica e celata al palcoscenico dei grandi media, quella che emerge dalle ricerche presentate in questi giorni dalla Fondazione Cesare Serono e dal Censis. Un ritratto della “dimensione nascosta delle disabilità” che vede protagoniste, in particolare, le persone affette da sclerosi multipla o autismo e le loro famiglie. Famiglie lasciate completamente sole nel 38,1% dei casi, con un’assistenza informale quotidiana demandata all’accudimento esclusivo dei familiari conviventi, che chiedono un impegno maggiore nel rafforzamento dei servizi socio-assistenziali e un potenziamento degli aiuti economici o degli sgravi fiscali concessi alle persone con disabilità.<br />
La linea di tendenza che sembra prevalere in questi ultimi anni è però di segno inverso. Nel 2010 l’Inps ha avviato una mastodontica campagna di verifica delle pensioni d’invalidità annunciando, nel mese di marzo dell’anno seguente, la revoca del 23% degli assegni. Una cifra certamente significativa se non fosse stata contraddetta, numeri alla mano, dall’allora ministro del Lavoro e delle Politiche sociali che, rispondendo a un’interpellanza parlamentare, certificò la percentuale di non conformità: su circa 100.000 controlli effettuati, soltanto nel 10,2% dei casi si era proceduto alla sospensione della pensione.</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> Percentuale addirittura inferiore di un punto e mezzo rispetto all’anno precedente. Tuttavia, l’attenzione mediatica suscitata dallo straordinario e costoso piano di verifica aveva colpito nel segno inaugurando una stagione inedita di caccia al “falso invalido” i cui risultati sono tuttora ben visibili. Sui reali bisogni delle persone con disabilità e sulle esigenze vissute da quelle famiglie che ogni giorno si affannano in solitudine per fare fronte a situazioni spesso drammatiche, è calata invece una cortina fumogena sempre più fitta che ha messo a tacere la necessità di un dibattito serio e urgente per aggiornare il tema delle politiche sociali. A partire dalla definizione di quei Livelli essenziali di assistenza (Lea) che da troppo tempo non trovano il giusto spazio nell’agenda di governo contribuendo ad aggravare, ancora oggi, le differenze tra Nord e Sud del Paese. <br />
Sul fronte degli interventi normativi la manovra “Salva Italia” prevede, tra i nuovi criteri di calcolo e di applicazione dell’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), la possibilità d’introdurre soglie di reddito oltre le quali non possano essere più concesse “provvidenze di natura assistenziale”. Tra queste rischierebbe di essere compromessa l'indennità di accompagnamento, unica forma di reale sostegno economico finora concessa indipendentemente dalle condizioni economiche. Un decreto attuativo, entro la fine di maggio, stabilirà la regolamentazione del nuovo Isee. Se le cose andassero nella direzione paventata verrebbe così a scomparire la sola forma diretta di supporto che lo Stato riconosce alle persone con disabilità grave, in una sorta d’implicita contropartita per i disagi e i disservizi causati da una mancanza strutturale del Paese. E si tornerebbe indietro di molti anni, rispolverando l’idea di un welfare che abbia il compito di assistere gli indigenti e non sia invece il baluardo del diritto di cittadinanza esigibile da tutti coloro che vivono una condizione di difficoltà. Piuttosto, in linea con quanto accade anche in altri Paesi d’Europa, si potrebbe formulare l’ipotesi di un sostegno economico che non sia uguale per tutti, come oggi avviene in Italia, ma graduato in base al reale bisogno della persona. Sarebbe un modo per superare l’attuale disequità di prestazioni, che non tengono conto delle differenti disabilità, e rilanciare l’idea di un Paese capace di rispondere ai bisogni di tutti i suoi cittadini.<br /><br /><span style="font-size: x-small;">Pubblicato in: <a href="http://www.agensir.it/" target="_blank"><strong>Sir</strong></a> - 14 febbraio 2012</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-41438195769578807782012-02-05T18:55:00.000+01:002012-02-06T15:35:04.484+01:00Il silenzio non è vuoto<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-F-_l3Or78qs/Ty7CxwV-vuI/AAAAAAAAADg/M6fZ_rWy8PI/s1600/preziosi_big.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://1.bp.blogspot.com/-F-_l3Or78qs/Ty7CxwV-vuI/AAAAAAAAADg/M6fZ_rWy8PI/s1600/preziosi_big.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Antonio Preziosi</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Il rapporto tra “silenzio e parola” è un “aspetto del processo umano della comunicazione che a volte è dimenticato, pur essendo molto importante, e che oggi appare particolarmente necessario richiamare” perché si tratta di “due momenti della comunicazione che devono equilibrarsi, succedersi e integrarsi per ottenere un autentico dia</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">logo e una profonda vicinanza tra le persone”. Nel messaggio per la 46</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">ª</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> Giornata mondiale delle comunicazioni sociali diffuso oggi dalla Santa Sede, Benedetto XVI ricorda che “quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora, o perché provoca un certo stordimento, o perché, al contrario, crea un clima di freddezza; quando, invece, si integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato”. Per riflettere sul messaggio del Papa nel giorno della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, il SIR ha intervistato </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Antonio Preziosi</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">, direttore di Radio Uno, del Giornale radio Rai e consultore del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Il tema del “silenzio”, al centro del messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, sembra essere apparentemente in contrasto con il “rumore” derivante dall’abbondanza di stimoli che provengono dai mass media... </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Rispetto al passato, l’avvento di internet e delle nuove tecnologie, propone un’offerta informativa massiccia e continuativa. Questo pone il problema di una più attenta valutazione delle notizie da parte di chi le riceve. Ecco perché il ‘lettore-ascoltatore-telespettatore-navigatore’, oggi ha bisogno di essere sempre più attento a selezionare e a valutare le informazioni che arrivano alla sua attenzione. C’è una bella frase di san Paolo che ha – a mio avviso – un valore universale: ‘Esaminate ogni cosa e trattenete ciò che è buono’. Io credo che valga per tutti, giornalisti e destinatari dell’informazione. Il silenzio, inteso come ascolto e concentrazione, aiuta questa pratica di discernimento”.</span><br />
</span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quale rapporto tra il silenzio e la professione giornalistica? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Il tema del silenzio in relazione al giornalismo può essere valutato secondo un duplice significato. Uno è positivo ed è da suggerire. L’altro è negativo e va respinto con forza. Dal punto di vista positivo, il silenzio è l’atteggiamento di ascolto e di attenzione che il giornalista deve avere nei confronti dei suoi interlocutori. Ascoltare per poter raccontare – e per poter contraddire con cognizione di causa – è un dovere del buon giornalista. Dal punto di vista negativo, invece, il silenzio è sinonimo di omissione o di reticenza. Chi nasconde le notizie, chi non le racconta, chi preferisce il buio del silenzio alla luce della verità, tradisce la sua missione di giornalista”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Regole dell’informazione e specificità dell’esperienza ecclesiale: come superare, da entrambe le parti, le incomprensioni? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“La parola chiave è ‘competenza’. Il giornalista che si occupa d’informazione religiosa deve potersi avvalere di una formazione e di una esperienza che lo portano a valutare i temi religiosi con piena autonomia di giudizio e con completezza. Rem tene, verba sequentur. Se conosci l’argomento, le parole seguiranno”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quali sono le regole alle quali si attiene nella gestione dell’informazione religiosa della sua testata? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Applico le regole universali che valgono per tutta l’informazione, non soltanto per quella religiosa: il rispetto del pluralismo, della completezza e della immediatezza dell’informazione. Questo garantisce la costruzione di un’informazione corretta, attenta a tutte le sensibilità e sempre dalla parte degli ascoltatori, di tutti gli ascoltatori”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b>Sir</b> - 24 gennaio 2012</span></span></span></span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-62333905449357010402012-02-03T18:31:00.000+01:002012-02-06T15:55:13.240+01:00I martiri del Novecento<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/-yO1uXnHVCXE/Ty6_cGeWZKI/AAAAAAAAADY/PUvEaVOXgHI/s1600/images.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://4.bp.blogspot.com/-yO1uXnHVCXE/Ty6_cGeWZKI/AAAAAAAAADY/PUvEaVOXgHI/s1600/images.jpeg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Bernhard Lichtenberg</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Quando la crescente follia nazista porta Adolf Hitler alla Cancelleria del Reich nel 1933, <b>Bernhard Lichtenberg</b> era stato nominato prevosto della cattedrale di Berlino da appena un mese. Secondo dei cinque figli del commerciante August e di sua moglie Emilie, Lichtenberg era nato ad Ohlau il 3 dicembre 1875 ed era stato ordinato sacerdote il 21 giugno 1899 dal vescovo Georg von Kopp nel duomo di Breslavia. Oppositore del nazismo fin dalle origini, Lichtenberg viene considerato nemico del Reich e osteggiato dalle alte gerarchie del regime che lo additano come “combattente fanatico per la causa cattolica”. Nella preghiera serale in cattedrale, dopo il massacro compiuto dalle squadre della SS nella “notte dei cristalli”, Lichtenberg si rivolge ai presenti con queste parole: “Quel che è stato ieri lo sappiamo. Quel che sarà domani non lo sappiamo. Ma quello che è successo oggi l’abbiamo vissuto. Là fuori la sinagoga è in fiamme: anch’essa è casa di Dio”. L’autunno del 1941 è segnato da un inasprimento della persecuzione antisemita. Al volantino diffuso dal gerarca Goebbels per incitare all’odio razziale, Lichtenberg risponde con una lettera indirizzata ai fedeli: “Nelle case berlinesi viene divulgato un giornale che incita all’odio contro gli ebrei. Esso afferma che ogni cittadino tedesco che per supposta errata sentimentalità aiuta gli ebrei, anche fosse solo tramite una semplice compiacenza, compie un atto di tradimento verso il suo popolo. Non fatevi fuorviare da queste idee non cristiane ma agite secondo i comandamenti di Gesù Cristo: Ama il prossimo tuo come te stesso”.</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br />Nell’ottobre dello stesso anno Lichtenberg viene arrestato e tradotto nelle prigioni naziste. Nonostante le sofferenze e gli interrogatori, il sacerdote mantiene ferma la volontà di difendere la sua fede cristiana: “Se taciamo noi preti, la gente perde del tutto la bussola e non sa più dove si trova”. Deportato dalla Gestapo al campo di concentramento di Dachau, Lichtenberg muore il 3 novembre 1943 durante il tragitto spossato dalla fatica e dalla mancanza di medicinali.</span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Alla luce della storia, il Novecento è stato a tutti gli effetti “tempo di martirio”. Dal genocidio degli armeni perpetrato dall’impero ottomano ad inizio secolo fino alle vittime più recenti disseminate in ogni angolo del mondo, il sangue versato dai martiri cristiani ha disegnato una mappa dello sterminio compiuto ai danni della Chiesa. Nei documenti elaborati in 5 anni di lavoro e pubblicati nel marzo del 2000, la Commissione per i nuovi martiri costituita da Giovanni Paolo II nel 1995 ha tracciato una prima sintesi del sacrifici o patito dai cristiani. Sono 12.692 i “nuovi martiri” del Novecento: 7.734 vescovi, 2.845 religiosi e 2.113 altre persone. Uomini e donne uccisi per la loro adesione al messaggio di Cristo, senza eccezioni di confini o aree geografiche: 746 in Africa; 1.706 in Asia; 8.670 in Europa; 333 nelle Americhe; 126 in Oceania; 1.111 nella Ex-Unione Sovietica. Numeri impressionanti che offrono indicazioni sulla dimensione reale del “martirologio contemporaneo”, così chiamato da Papa Wojtyla nel discorso d’apertura del Concistoro straordinario (13 giugno 1994) durante il quale chiede un aggiornamento del catalogo dei martiri che renda giustizia al sangue versato dai cristiani perché “al termine del secondo Millennio la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa dei martiri”. Il materiale elaborato dalla Commissione, tuttavia, non offre il censimento esatto di tutti i morti in nome della fede nel corso del Novecento. Non tutte le Conferenze episcopali e le Congregazioni religiose interpellate dalla Commissione, infatti, hanno risposto positivamente all’invito di raccogliere testimonianze e documentazione sulle persecuzioni subite dai cristiani nel loro territorio.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Una mancanza di dati dovuta soprattutto alla difficoltà di accedere alla memoria di un martirio che, in molti casi, è ancora troppo viva nella percezione dei protagonisti.
Da questa prima ricognizione compiuta su nomi e volti del “secolo del martirio”, emerge un’Europa segnata da totalitarismi e oppressioni. Il 26 maggio 1936 muore nelle isole Solovki, arcipelago della Russia settentrionale, il sacerdote cattolico <b>Nicolaj Aleksandrov</b>. Dopo aver sostituito padre Vladimir Abrikosov alla guida della parrocchia, Aleksandrov viene arrestato nella notte del 12 novembre 1923 con l’accusa di attività controrivoluzionarie. Nel gulag delle Solovki, all’interno delle mura del monastero convertito a campo di lavoro, Aleksandrov si dedica alla formazione di una comunità di fedeli nonostante le condizioni inumane a cui i prigionieri sono sottoposti. Grazie alla sua determinazione, padre Nicolaj ottiene il permesso di celebrare la messa in una cappella che era stata adibita a deposito merci. Nel 1934, Aleksandrov viene rilasciato con il divieto di abitare nei sei centri urbani più importanti dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Impiegato come ingegnere nella città di Dmitrov, padre Nicolaj continua a celebrare in maniera clandestina nell’abitazione privata e viene scoperto dalle autorità comuniste. Incarcerato e processato, Aleksandrov è condannato a 5 anni di lavori forzati. Morirà nelle isole Solovki, all’età di 52 anni. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’ideologia comunista estende la sua influenza anche ai paesi dell’Europa orientale. Persecuzioni antireligiose, chiusura delle scuole cattoliche, controllo sul clero, abolizione degli ordini religiosi ed emarginazione dei credenti divengono espedienti metodicamente utilizzati in Bulgaria, Polonia, Ungheria e Romania. In Albania, il dogmatismo ideologico e la politica nazionalista di Enver Hoxha porta al bando di Dio dalla società nel 1967. Si inaugura così la persecuzione contro associazioni, congregazioni e fedeli: dei 6 vescovi e 156 preti in vita prima dell’avvento del comunismo, 65 furono uccisi per condanna a morte o sotto tortura e altri 64 si spensero nei campi di lavoro o in prigione. La storia del gesuita </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Daniel Dajani</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> è un esempio dello spirito che anima coloro che sono disposti a mettere in gioco la propria vita in nome di Cristo. Sottoposto a torture negli anni della detenzione, padre Dajani conservò la dignità di uomo nelle carceri albanesi. Ricorda un detenuto che lo aveva incontrato in galera: “All’ora del pranzo uno di noi ricevette del cibo inviato dalla famiglia e riuscì ad offrirgli un’arancia senza che il guardiano se ne accorgesse. Ma il prete rifiutò con nostra grande sorpresa: ‘No, figlio mio, devi mangiarla tu. Tu sei giovane e ne hai più bisogno di me’. Questo gesto di quell’uomo di Dio in quei momenti orribili fu indescrivibile, così umano, così coraggioso per tutti noi, che eravamo dei giovani”.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Nel corso del Novecento, numerosi sacerdoti e laici trovano il martirio per il loro impegno missionario. In Africa, la Chiesa si profonde con maggiore vigore nell’opera evangelizzatrice legandosi talvolta in modo inestricabile con le politiche coloniali messe in atto dalle potenze occidentali nella prima metà del secolo. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Domestico presso l’agente di una società belga in Congo, <b>Isidore Bakanja</b> è solito indossare lo scapolare della Madonna del Carmine e professare la fede cristiana. Il suo datore di lavoro, però, ritiene che i neri debbano soltanto lavorare e non perdere tempo in preghiere. Ordina ad Isidore di togliere lo scapolare ma questi si rifiuta, chiedendo di tornare a casa. Viene così flagellato per due volte consecutive, con frustate che scavano sul suo copro ferite inguaribili. Dopo una lenta agonia di sei mesi, Isidore si spegne con lo scapolare al collo. Ad un amico dice: “Se vedi mia madre, se vai dal giudice, se incontri un sacerdote, avvertili che sto morendo perché sono cristiano”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">È un lavoro complesso e delicato quello portato avanti dai missionari in Africa, inseriti in un contesto che tende a deteriorarsi ancor di più nel secondo Novecento quando si avvia il processo di decolonizzazione. In molti casi, i missionari vengono identificati con il potere europeo e diventano oggetto di odio e violenza. Negli ultimi due mesi del 1964, quattro padri comboniani, il vescovo di Wamba, sette missionari e il medico della missione evangelica di Ubangi, Paul Carlson, vengono brutalmente uccisi in Congo. Nel 1972 suor <b>Cecilia Jansen</b>, olandese delle missionarie di Nostra Signora d’Africa, accompagna un malato di cancro a Kampala. Arrivata nella capitale dell’Uganda, suor Cecilia viene colpita di fronte al segretariato cattolico da alcuni uomini che la aspettavano dentro un’automobile. La morte sopraggiunge dopo poco tempo, a causa delle ferite riportate. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">La presenza cristiana è vittima delle persecuzioni anche in Asia, soprattutto durante il periodo del comunismo. Nella Cina maoista, il salesiano <b>Giuseppe Fu Yutang </b>partecipa alle riunioni di propaganda contro i missionari e il Vaticano. Nel corso di uno di questi incontri, però, il sacerdote si oppone all’indottrinamento e viene arrestato. Anche il chierico <b>Pietro Ye Mingren</b>, che ne prende le difese di fronte ad alcuni studenti, viene prelevato e portato in carcere. Di lì a breve Pietro muore per tubercolosi e, nell’ottobre del 1961, don Giuseppe si spegne nel campo di lavoro di Bai Hu. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">La violenza indirizzata contro gli uomini di fede non trova pause nemmeno con l’inizio del nuovo millennio. A pagare il prezzo più alto sono sempre coloro che mettono a disposizione la propria vita nelle terre di evangelizzazione a minoranza cattolica. Soltanto nel 2008, secondo i numeri diffusi dall’agenzia della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, sono stati uccisi 20 credenti: mons. </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Paulos Faraj Rahho</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">, arcivescovo caldeo di Mosul (Iraq); 16 sacerdoti; 1 religioso e 2 volontari laici. La distribuzione per aree geografiche vede l’Asia con 8 morti, l’America 5, l’Africa 5 e l’Europa (Russia) 2. Senza contare la strage dei cristiani nella provincia di Orissa, in India, durante il mese di agosto. Un computo di morte senza fine, alimentato dagli 8 cristiani uccisi quest’anno da gruppi di integralisti musulmani che hanno dato fuoco a decine di case nella città di Gojra, nel Punjab orientale (Pakistan). E dalle decine di uomini e donne che muoiono nel mondo: di questi giorni la notizia della morte del missionario irlandese Jeremiah Roche, assassinato nella notte tra il 10 e l’11 dicembre da alcuni sconosciuti che sono entrati nella sua casa a Kericho, 250 chilometri da Nairobi (Kenya).</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Il tributo di sangue pagato dai cristiani ha lasciato un impronta indelebile anche in Italia. Il 19 marzo 1994 muore a Casal di Principe, nel giorno del suo onomastico, don <b>Giuseppe Diana</b>. Due assassini lo uccidono a colpi di pistola, sorprendendolo mentre si accingeva a celebrare la messa nella chiesa di San Nicola di Bari. La colpa di don Diana era stata quella di opporsi con fermezza alla mafia, firmando tra l’altro un documento di denuncia di fenomeni criminali sul territorio: “La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana” pertanto “l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una ‘ministerialità’ di liberazione, di promozione umana e di servizio”. In Italia, la mafia diffusa capillarmente nel tessuto politico e sociale del paese è tra le cause principali del martirio cristiano. Un colpo di fucile caricato a pallettoni in pieno petto uccide don <b>Graziano Muntoni</b> la mattina del 24 dicembre 1998, in Sardegna, nel paese di Orgosolo dove è viceparroco. Il sacerdote era stato assessore del comune di Fonni e insegnante di educazione musicale alle scuole medie. Poi la chiamata a servire Cristo e difendere il suo popolo, con l’ordinazione sacerdotale nel 1990. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Numerosi sono i martiri italiani che muoiono all’estero, impegnati nella diffusione della Buona Novella. Nato a Mantova il 10 aprile del 1946, padre </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Tullio Favalli</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> diventa sacerdote missionario del Pime nel 1981. Spende quasi tutta la vita sull’isola di Mindanao (Filippine), operando nella missione della cittadina di Tulunan in una situazione pericolosa per la guerriglia e le scorribande dei gruppi armati. Padre Favalli vive con sofferenza i tormenti delle persone povere che lo circondano: “La vita e la morte si intrecciano come esperienza quotidiana e ci danno una concezione più realistica e più vera di noi essere mortali”. L’11 aprile 1985 padre Favalli corre in soccorso di una persona circondata nella sua abitazione da un gruppo di milizie locali e viene freddato con 21 colpi d’arma da fuoco. Anche la storia di don </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Aldo Menghi</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> è significativa per l’attenzione nei confronti dei poveri. Don Menghi si consacra come fratello religioso nella Congregazione di scuole della carità Cavanis nel 1966 e lavora come infermiere nell’ospedale di Venezia. Nel 1975 è in Brasile, poi a Panama e infine in Ecuador dove promuove attività assistenziali per i meno fortunati. La sera del 16 luglio 1995, festa della Madonna del Carmine, viene rapito. Il corpo sarà ritrovato vicino alla discarica della città: don Menghi aveva pagato con la vita per aver tentato di salvare i giovani dalla delinquenza.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">L’adesione al messaggio di Cristo interpella la totalità della persona nell’impegno gratuito per il prossimo. Un impegno fatto di gesti e progetti, sorrisi e lacrime. Ce lo ricorda Benedetto XVI, nell’omelia per la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo del 28 giugno 2007: “Come agli inizi, anche oggi Cristo ha bisogno di apostoli pronti a sacrificare se stessi. Ha bisogno di testimoni e di martiri come san Paolo: un tempo persecutore violento dei cristiani, quando sulla via di Damasco cadde a terra abbagliato dalla luce divina, passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì. Quanto attuale è oggi il suo esempio!”. </span>
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<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 2 - Febbraio 2010</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-10069604596147321822012-02-02T11:24:00.000+01:002012-02-05T19:09:02.919+01:00Oltre le apparenze. 'Avatar', un film "con la disabilità"<br />
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-jZSuEtkHAoA/TyPMzr4rM2I/AAAAAAAAAAM/lZBnlKnL5yw/s1600/4297543689_01319d22ec_o.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="200" src="http://1.bp.blogspot.com/-jZSuEtkHAoA/TyPMzr4rM2I/AAAAAAAAAAM/lZBnlKnL5yw/s320/4297543689_01319d22ec_o.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Avatar</td></tr>
</tbody></table>
<span style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Più che una pellicola di genere, Avatar è un'esperienza visiva. Sul fantastico pianeta di Pandora, ideato e realizzato da James Cameron in 15 anni di gestazione creativa, la forza delle immagini dirompe in una storia di scelte e sentimenti. Nel puntare sulla grandezza espressiva del cinema tridimensionale, "Avatar" sacrifica la complessità della trama a vantaggio di una sceneggiatura che trova nella citazione e nella narrazione diacronica la dimensione più vera.</span><br />
<span style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Dalla spiritualità panica alla condanna delle guerre di conquista, dal potere della tecnologia al trionfo della natura: Cameron racconta un mondo alla rovescia in cui l'alieno e il diverso sono dentro di noi, si mescolano e si scambiano fino a confondersi. Ed è proprio un diverso il protagonista di "Avatar": diverso dagli uomini del suo mondo, perché vive su una sedia a rotelle; diverso dagli abitanti di Pandora, popolo extraterrestre dalla pelle azzurra e dal fisico imponente; diverso da se stesso, con quella doppia vita che il destino gli ha riservato. Per la prima volta, il cinema di Hollywood affida ad una persona disabile il ruolo di protagonista in un blockbuster internazionale. Non mancano, nella storia del cinema, esempi di pellicole più o meno riuscite sul tema della disabilità fisica: quasi sempre reduci, che sia della Seconda guerra mondiale ("Il mio corpo ti appartiene", 1950) o del Vietnam ("Nato il quattro luglio", 1989) poco cambia; talvolta artisti ("Il mio piede sinistro", 1989) o meccanici di nave inchiodati in un letto ("Mare dentro", 2004). A differenza di questi lungometraggi, accomunati dall'esigenza di mostrare le difficoltà di una realtà scarsamente conosciuta, "Avatar" non è un film sulla disabilità ma un film con la disabilità. </span>
<br />
<a name='more'></a><span style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Sul grande schermo non va in scena l'esplorazione del mondo dell'handicap, non c'è analisi o approfondimento. Poco importa la vita precedente del protagonista: quel che conta, sopra ogni cosa, è il tempo presente. L'oggi vissuto nel senso più vero, con le possibilità e i mezzi che si hanno a disposizione. Così la disabilità non è vista come oggetto d'indagine ma come condizione di vita, pari a quella di qualsiasi altro personaggio, e non si avverte la necessità di dover spiegare questioni irrilevanti per l'economia di una storia che si spinge oltre le apparenze.<br />Nel gioco degli opposti, Cameron trova la quadratura del cerchio e dirige una pellicola che integra la figura della persona disabile attraverso un processo di "normalizzazione". Con "Avatar", allora, si definisce un paradigma difficilmente riscontrabile nel panorama cinematografico e dei mass media in genere, poco interessati a fornire una comunicazione attenta e responsabile sul tema. Le parole, ricorda lo scrittore Karl Kraus, sono "la madre del pensiero". E pensare alla disabilità con le parole corrette è il primo passo per favorire una reale comprensione e integrazione del fenomeno. Non più "disabile", dunque, ma "persona disabile" perché la sostanza dell'umanità comune resta identica anche se cambiano le qualità esteriori. È per questo che "Avatar" segna una strada ancora inesplorata, abbandonando il cliché del cinema di genere e lasciando che siano le immagini a parlare più che le persone. Attraverso la ricchezza della sceneggiatura e la laboriosità della computer graphic, che nell'abbondanza delle forme e nella saturazione della scena raggiunge la cifra della semplicità stilistica, la storia è ridotta all'essenziale. Ogni personaggio, quand'anche caricaturale e stereotipizzato, trova la giusta collocazione e partecipa alla composizione di un quadro narrativo che offre indicazioni e suggestioni ma delega allo spettatore il compito di interpretare. Così della disabilità non si fa più racconto ma esperienza di vita. E nel lontano mondo di Pandora, dove ciascuno è alieno ma nessuno è diverso, ogni uomo può ritrovarsi a casa.</span><br />
<br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b><a href="http://www.agensir.it/" target="_blank">Sir</a></b> - Note n.6 dell'8 febbraio 2010</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-76129792003079586262012-02-01T19:03:00.000+01:002012-02-05T19:08:52.680+01:00Il dono più grande. Intervista con Gian Franco Svidercoschi<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-f74AzZZ8MnQ/Ty7EdOn6A4I/AAAAAAAAADo/UKYS6-xasOY/s1600/Michelangelo__Giovanni-Paolo-II_g.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://2.bp.blogspot.com/-f74AzZZ8MnQ/Ty7EdOn6A4I/AAAAAAAAADo/UKYS6-xasOY/s320/Michelangelo__Giovanni-Paolo-II_g.jpg" width="225" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Giovanni Paolo II</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Nella preziosa eredità di Giovanni Paolo II c’è, soprattutto, il dono della testimonianza personale. Papa Wojtyla II ha fatto esperienza radicale del Vangelo, fino alla fine dei suoi giorni. C’è una santità che non è ufficiale ma quotidiana vissuta nei rapporti con gli altri, nei contatti, nella malattia, nella sofferenza. Era un Papa capace di chiedere scusa se riteneva di aver sbagliato e aveva una dimensione umana strettamente compenetrata con la capacità di vivere Dio in ogni momento della giornata. Questa santità è forse la cosa più nuova che Giovanni Paolo II ha lasciato: una religiosità che tutta la gente può vivere, semplice e profonda”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Dopo la firma di Benedetto XVI del decreto sulle “virtù eroiche” di Giovanni Paolo II (sabato 19 dicembre), il SIR ha chiesto a <b>Gian Franco Svidercoschi</b>, vaticanista e biografo di Papa Wojtyla, una lettura personale del processo di beatificazione in corso. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>I tempi per la beatificazione sono stati relativamente brevi… </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Benedetto XVI si è limitato a derogare dalla regola iniziale e, invece di aspettare 5 anni dalla morte per poter avviare il processo, ha dato il permesso subito. Per il resto, è stato seguito l’iter normale. Tenuto conto dell’universalità del consenso di Papa Wojtyla, il Santo Padre non poteva che fare così. Durante i funerali è stato evidente che Giovanni Paolo II è riuscito a parlare e farsi accettare anche da persone di altre religioni. Ancora oggi ci sono credenti di fede diversa che continuano a visitare la sua tomba. Per questo, era quasi scontato che il Pontefice abbreviasse i tempi del processo”. </span><br />
<a name='more'></a><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>La richiesta di santità è venuta soltanto da parte dei fedeli? </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“La spinta per la beatificazione è stata contemporanea da parte dei fedeli e del Papa. Benedetto XVI è stato forse il maggior collaboratore di Giovanni Paolo II, perlomeno a partire dai primi anni ‘80. Due mesi fa l’ho incontrato per portargli l’ultimo libro pubblicato su Giovanni Paolo II (“Un papa che non muore”, San Paolo edizioni, ndr). Mentre mi stavo avvicinando, il Santo Padre mi ha detto con una battuta: ‘Sì sì, lo so che ha scritto un nuovo libro sul Papa’, come se il Papa fosse ancora Giovanni Paolo II. È una testimonianza del rapporto stretto che li univa. Lo stimolo, dunque, è partito sia dal popolo di Dio che dal desiderio del Papa affinché fosse riconosciuto il ‘profumo di santità’ con cui Giovanni Paolo II ha inondato la comunità cattolica”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Chi ha raccolto l’eredità spirituale di Papa Wojtyla? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“È significativo che i più piccoli, alcun appena nati quando il Papa è morto, sono entrati nell’umanità e nella religiosità gioiosa di Giovanni Paolo II attraverso il racconto dei padri, dei sacerdoti e della televisione. Senza renderci conto, Papa Wojtyla ha già operato una rivoluzione quotidiana con i protagonisti della Chiesa di oggi: i giovani. Rispetto alla fine degli anni ‘70, quando si pensava che le nuove generazioni si fossero allontanate definitivamente dalla Chiesa, c’è stato un ritorno d’interesse. Oltre ai giovani, i movimenti sono stati uno dei fenomeni più straordinari della seconda metà del XX secolo. Sono la risposta alle esigenze della Chiesa odierna, la dimensione missionaria che dovrebbe essere il completamento delle parrocchie. Sono i movimenti che hanno permesso alla Chiesa di raggiungere certi ambienti, soprattutto quelli giovanili e universitari, dove da anni la religione era in qualche modo messa da parte. Infine, le donne sono le vere protagoniste dell’eredità di Giovanni Paolo II: i giovani portano una percezione del futuro, i movimenti sanno affrontare le sfide della modernità ma grazie alle donne si recupera l’aspetto più misericordioso della Chiesa”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>La testimonianza di Giovanni Paolo II è ancora viva nella Chiesa? </b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“È una Chiesa che sta cambiando pelle, grazie al contributo di protagonisti come Papa Wojtyla. C’è una linea di continuità con il Pontefice attuale che supera ogni differenza, all’insegna di una religiosità che deve essere vissuta nella maturazione delle coscienze e non soltanto in risposta ad un imperativo morale. L’eredità di Giovanni Paolo II deve essere portata avanti in tempi difficili. All’epoca di Papa Wojtyla esistevano ancora le ideologie che, sebbene tendenzialmente negative, avevano all’origine delle idealità e dei valori da seguire. Oggi, in una società che ha fatto tabula rasa dei principi, Benedetto XVI ha forse un compito ancora più difficile: mentre Giovanni Paolo II attraversava i continenti per portare l’annuncio di Dio ai popoli del mondo, Papa Ratzinger è chiamato a viaggiare all’interno dell’uomo contemporaneo perché è lì che Dio è stato cancellato”. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b>Sir</b> Italia n.89 del 23 dicembre 2009</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-20949780146789244312012-01-30T19:19:00.000+01:002012-02-05T19:25:19.127+01:00Non ci si deve abituare. Intervista con Cristiano Nervegna<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-2i1PS16qk9I/Ty7IkDo8b6I/AAAAAAAAADw/H70uvfpDYSw/s1600/disoccupazione-giovanile.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="240" src="http://3.bp.blogspot.com/-2i1PS16qk9I/Ty7IkDo8b6I/AAAAAAAAADw/H70uvfpDYSw/s320/disoccupazione-giovanile.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Proteste contro la disoccupazione</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"Il mondo del lavoro ha pagato e continua a pagare pesantemente questa crisi con la perdita di risorse, anche quando gli effetti sull'economia sembrano meno drammatici. Ritengo che i giovani siano la prova della fragilità del sistema-Paese perché, laddove servirebbe maggiore accompagnamento, il risultato è peggiore". Con queste parole <b>Cristiano Nervegna</b>, segretario nazionale del Movimento lavoratori Azione Cattolica (Mlac), commenta al SIR i dati diffusi il 17 dicembre dall'Istat nella "Rilevazione sulle forze lavoro del III trimestre". Dal Rapporto emerge che sono circa mezzo milione (508 mila) gli occupati in meno nel III trimestre 2009, su un totale di 23 milioni di lavoratori. Il tasso di disoccupazione maschile sale dal 4,9% del III trimestre 2008 al 6,4% nel III trimestre 2009, quello femminile passa dal 7,9% all'8,6%. Nel Nord si va dal 3,4% al 5,1%, interessando sia gli uomini sia le donne. Nel Centro il tasso di disoccupazione si porta al 6,5% dal 5,7% di un anno prima, con una crescita più sostenuta per la parte maschile. Nel Mezzogiorno il dato è dell'11,7%, sei decimi di punto in più rispetto al III trimestre 2008. Per la terza volta consecutiva aumenta la disoccupazione degli stranieri che, dal 6,9% del III trimestre 2008, arriva al 10,6%. Per quanto riguarda i giovani, il tasso di disoccupazione si porta al 23,5%. In questo trimestre, inoltre, neanche l'apporto della cassa integrazione è riuscito a compensare l'effetto della mancanza di lavoro che ha registrato anche una significativa flessione dei dipendenti a tempo indeterminato. Con Nervegna riflettiamo su questi dati.</span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>I dati dell'Istat mostrano che i giovani sono una delle categorie più colpite… </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"È impressionante la cifra della disoccupazione giovanile. Se la si confronta con altri dati europei si vede come la situazione dell'Italia, da questo lato, sia pesante. Veniamo da un periodo molto lungo di riforme delle politiche del lavoro e, quindi, credo si debbano collegare le scelte fatte in questi anni con un dato tanto negativo. Soprattutto mi sembra che questi giovani siano sempre più difficili da rappresentare da un punto di vista politico, sindacale e, in parte, associativo. Recentemente il professor Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, ha scritto una lettera molto commentata nella quale invitava il figlio a lasciare l'Italia: probabilmente sono le generazioni precedenti che dovrebbero lasciare il Paese".
</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quali sono le difficoltà di accesso al mercato del lavoro? </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"Dai dati emerge una difformità significativa in base alle Regioni e alle categorie rappresentate.Le donne italiane e gli immigrati hanno un tasso di disoccupazione al di sopra degli uomini, anche per area geografica. Questo significa che in Italia ancora ci sono alcune latenti discriminazioni. Il Mezzogiorno, poi, non è ben descritto dai numeri dell'Istat e un movimento come il Mlac, molto presente nel Sud, può testimoniare che tanti giovani vivono sindromi di sfiducia tali che li spingono a non cercare nemmeno più lavoro e, quindi, non sono valutabili all'interno della rilevazione".
</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Che misure si possono adottare per incentivare l'occupazione? </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"Nella mia esperienza molti lavoratori che perdono il posto di lavoro, con o senza ammortizzatori sociali, quando provano a reinserirsi trovano un mercato ancora più fragile di quello da cui sono usciti. Questo significa che sono necessarie misure sistemiche perché il deperimento non è valutabile soltanto attraverso dati quantitativi ma chiama in causa la struttura stessa del mercato del lavoro che, con le iniziative prese in questi ultimi anni, non è cresciuta dal punto di vista dell'occupabilità. Nessuno chiede di tornare al contratto a tempo indeterminato, mito di una generazione, ma almeno delle forme d'incentivazione all'occupabilità vanno attuate".
</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><b>Quali sono i passi per uscire dalla crisi? </b></span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"È fondamentale evitare in tutti i modi di uscire da questa crisi con le stesse misure con le quali siamo entrati. Deve essere un'opportunità di rinnovamento che, per il momento, risulta non colta. Anche se gli ammortizzatori sociali possono aiutare tante persone a passare il Natale, non sono una soluzione definitiva. Se non uscissimo da questa recessione con una verifica oggettiva delle misure sinora adottate e una riforma degli ammortizzatori sociali in termini di protezioni attive, temo che la crisi rimarrà tale e ci si abituerà ad essa invece di impegnarsi per superarla". </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b>Sir</b> Italia n.87 del 18 dicembre 2009</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-63904791322264674252011-12-20T10:22:00.000+01:002012-02-06T10:30:18.965+01:00Solidarietà sugli schermi<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/-NXAUM4_dBOo/Ty-cWEHruiI/AAAAAAAAAD4/e_YJXm76CzE/s1600/terremoto_aquila.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="213" src="http://4.bp.blogspot.com/-NXAUM4_dBOo/Ty-cWEHruiI/AAAAAAAAAD4/e_YJXm76CzE/s320/terremoto_aquila.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Terremoto a L'Aquila</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">6 aprile 2009, ore 3,32. Mentre L’Aquila dorme, un terremoto di magnitudo 6,3 della scala Richter devasta il capoluogo abruzzese e lascia dietro di sé un bilancio di morte: 308 vittime, circa 1.600 feriti e oltre 65.000 sfollati accolti in tendopoli, automobili, camper e alberghi della riviera adriatica. Nelle 48 ore successive alla scossa di maggiore intensità, la terra trema altre 256 volte di cui più di 150 nel solo giorno di martedì 7 aprile. La prima televisione che dà notizia del tragico evento è Rai News 24, che si collega telefonicamente con L’Aquila alle ore 4,31 di notte per trasmettere poi le prime immagini alle 5,35. Da quel momento, l’intero sistema mediatico si mobilita per raccontare il succedersi dei fatti e accendere i riflettori su quelle città ridotte a macerie. Prende il via la grande macchina televisiva, e con essa la rincorsa alla solidarietà per le popolazioni abruzzesi. Quando lo sgangherato circo dell’informazione apre i battenti, è difficile arrestarlo.</span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><i><br /></i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><i>Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. (Levitico 19,17-18)</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Ascolti record in tutte le edizioni del Tg1 nella giornata del terremoto in Abruzzo”. È il principale telegiornale nazionale a celebrare dati, audience e percentuali di share. Nel corso dell’edizione serale, la conduttrice Susanna Petruni elenca per oltre un minuto le cifre raccolte all’indomani del sisma: numeri che spaventano e interrogano sulle logiche che regolano il servizio pubblico, mentre nella mente di tutti ricorrono i volti e i vuoti della devastazione.</span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">La settimana del terremoto modifica la programmazione delle emittenti televisive. La Rai adatta il palinsesto per esigenze di informazione così come Sky che, tra le altre trasmissioni spostate, cancella la puntata prevista del “Fiorello show”. Anche Mediaset si adatta alla tendenza di tenere un profilo basso e decide di non mandare in onda la puntata consueta del “Grande Fratello”: una scelta interessante e in controtendenza rispetto alla linea editoriale seguita in occasione della morte di Eluana Englaro, quando l’azienda ritenne che non fosse necessario apportare cambiamenti alla prima serata di Canale 5 e mantenne il prime time del reality show. Secondo i dati diffusi da Sipra, concessionaria della pubblicità per la Rai, la scelta di modificare la programmazione ha portato ad un calo degli investimenti pubblicitari con una significativa riduzione in termini di mancati introiti. Una situazione che ha interessato anche le altre emittenti e che suggerisce interrogativi sulla capacità di sfruttare le opportunità offerte da una simile scelta in termini di qualità dell’informazione e rispetto della persona. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Nell’immediato dopo terremoto, le maggiori reti televisive si affrettano a lanciare campagne di solidarietà per la raccolta di fondi da destinare all’Abruzzo. Mediafriends, associazione non lucrativa di utilità sociale facente capo a Mediaset, stanzia 5.790.224 euro grazie al contributo dei telespettatori; Sky si attesta intorno ai 2.100.000 euro, 1 milione dei quali donato dalla stessa azienda; anche la Rai, su richiesta del ministero dello Sviluppo economico, avvia una campagna straordinaria autorizzata dal Segretariato sociale il cui ricavato è devoluto alla Protezione Civile per le operazioni di assistenza e ricostruzione. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">È una solidarietà, quella televisiva, che si nutre di ascolti e partecipazione del pubblico e tende a svuotarsi della sua dimensione autenticamente umana. Con il contributo dei telespettatori/cittadini, si sopperisce alle esigenze di soldi e lavoro che lo Stato non è in grado di gestire in maniera autonoma. Attraverso le televisioni, si chiede aiuto e ci si mobilita nobilmente nei momenti di massima emergenza nazionale. Ma il contributo dei media si ferma a questo livello e non esplora la strada di un ripensamento del sistema di informazione. L’agenda setting dei media e della politica prevale sulle esigenze del pubblico, determinando e ordinando gerarchicamente i temi e le notizie presentate. All’interno di questo contesto dominato da regole di mercato, la televisione ricopre un ruolo di primo piano nella formazione dell’opinione pubblica e lascia poco spazio all’argomentazione razionale capace di suscitare una coscienza critica nel pubblico. La solidarietà è allora asservita alla logica della spettacolarizzazione (in trasmissioni come “Al posto tuo”, “Ricomincio da qui”) e del commercio (tra gli altri, “La vita in diretta”, “Mattino cinque” e “Pomeriggio cinque”). Difficile affrontare il tema in modo maturo e responsabile. Pochi i programmi che riescono ad interessarsi al prossimo con uno sguardo attento e preoccupato. Casi isolati ma non per questo assenti. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><i>Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo manderai via da te libero. Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote; gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto; ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comandamento. (Deuteronomio 15, 12-15) </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Nel libro dell’Esodo, il profeta Mosè sceglie di rifiutare la corte del Faraone per restare solidale col suo popolo oppresso e schierarsi al fianco dei più deboli. Quando gli ebrei cedono all’adorazione del vitello d’oro e l’ira di Dio incombe sugli uomini per il peccato commesso, Mosè non esita a manifestare la sua profonda solidarietà nei confronti dei fratelli supplicando il Signore di perdonarli e dichiarandosi disposto a condividerne la sorte: “Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es 32, 31-32). E ancora, nella lettera agli Ebrei: “Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa” (Eb 11,24-26). Nell’insegnamento della Bibbia e nell’esempio di Cristo, la solidarietà per il prossimo è fatta di carne e di sangue: per incontrare il fratello non teme il giudizio ed è disposta a rischiare tutto, senza distogliere lo sguardo dalla realtà. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Dopo la decisione del Governo di respingere le imbarcazioni di clandestini provenienti dalla Libia, la trasmissione “Che tempo che fa” (Rai Tre, 20 maggio 2009) manda in onda uno speciale dello scrittore Erri De Luca che dall’isola di Lampedusa racconta l’immigrazione di ieri e di oggi. Accompagnato dalla musica perfetta di Gianmaria Testa, De Luca regala un’intensa pagina di televisione dimostrando che è possibile parlare di solidarietà e toccare il cuore delle persone senza cedere alla tentazione di abbandonarsi a facili cliché per aumentare l’audience. Struggente la “Lettera a casa dall’altra parte dell’oceano” di un emigrato napoletano, che scrive alla madre nel 1925 dagli Stati Uniti d’America: “Mia cara matre, che sò, che sò i denari. Per chi se chiagne a patria nun sò niente. Mò tengo qualche dollaro e me pare che non sò stato mai tanto pezzente. Ma non torno. Me ne resto fora. Resto a faticà per tutti quanti. Io ch’aggio perso patria, casa, onore, io sò carne e maciello, so’ emigrante”. Nel ricordare che più di cento volte la Bibbia “tutela lo straniero”, De Luca indossa i panni del migrante: “Da qualunque distanza arriveremo a milioni di passi, noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso. Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto. Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo, noi siamo il rosso e il nero della terra, un oltremare di sandali sfondati, il polline e la polvere nel vento di stasera. Uno di noi, a nome di tutti, ha detto: Non vi sbarazzerete di me. Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno”. La puntata registra 2.399.000 telespettatori, con uno share del 10,32% nonostante la concorrenza della prima serata. Un dato significativo che indica come sia possibile coniugare qualità e numeri, offrendo un servizio pubblico all’altezza delle aspettative. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><i>Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno. (Atti degli Apostoli 4,34-35) </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Lars Lindstrom è un ragazzo dolce e introverso che vive in un piccolo paese del Wisconsin, con gravi difficoltà relazionali e di interazione sociale. Quando sembra aver finalmente trovato una fidanzata da presentare a parenti e amici, si scopre che l’adorata Bianca conosciuta da Lars su internet non è altro che una bambola in silicone a grandezza naturale con fattezze da donna acquistata online. Il fratello Gus e la moglie Karin consultano il medico di famiglia, che consiglia loro di far buon viso a cattivo gioco dal momento che Lars è chiaramente vittima di una nevrosi che gli fa percepire la realtà in maniera alterata. Per aiutarlo a uscire dalla crisi, familiari e concittadini devono aiutarsi reciprocamente ed è allora che una fitta rete di solidarietà attraverserà la città per sostenere la guarigione del giovane. E così Bianca andrà a messa, poserà per una boutique, farà la volontaria in ospedale e accompagnerà Lars ai primi eventi sociali della sua vita. Proprio lei saprà entrare nel cuore di tutti quelli che incontra e colmerà in loro vuoti che non sapevano di avere. Quando il tema della solidarietà incontra il cinema, gli esiti non sono mai così scontati. È il caso di Lars e una ragazza tutta sua (2007) per la regia di Craig Gillespie, delicata ed emozionante commedia sulla difficoltà di comunicare e sentirsi amati. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Il cinema, come l’arte in genere, non ha mai smesso di interrogarsi sul sentimento di solidarietà: da La moglie del fornaio (1938) di Marcel Pagnol e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, fino ai recenti Le ali della libertà (1994) di Frank Darabont, Big Fish (2004) di Tim Burton, Mille miglia…lontano (2006) di Zang Yimou, Il mio amico giardiniere (2007) di Jean Becker e Le luci della sera (2007) di Aki Kaurismaki. Ed è proprio dall’arte che arrivano le intuizioni più belle sul tema, come ricorda lo scrittore irlandese James Joyce: “Mentre tu hai una cosa, questa può esserti tolta. Ma quando tu la dai, ecco, l’hai data. Nessun ladro te la può rubare. E allora è tua per sempre”. </span>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif; font-size: x-small;">Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n.8/9 - Agosto/Settembre 2009</span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-1050150220210501502011-12-06T10:33:00.000+01:002012-02-06T15:43:14.504+01:00Un passo in avanti. Intervista con don Giuseppe Costa<div style="text-align: left;">
</div>
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-MK7_q4STirI/Ty_m9kX8clI/AAAAAAAAAF4/6WM_D1OntGo/s1600/don_giuseppe_costa.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://2.bp.blogspot.com/-MK7_q4STirI/Ty_m9kX8clI/AAAAAAAAAF4/6WM_D1OntGo/s1600/don_giuseppe_costa.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Don Giuseppe Costa</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"In Italia, il libro religioso ha sempre seguito un percorso singolare. Quando le facoltà statali di teologia furono abolite nel corso dell'Ottocento, si sono aperte delle librerie religiose che commerciavano quasi esclusivamente testi liturgici e ancora oggi, in quelle laiche, è possibile trovare soltanto pochi libri di carattere religioso". In occasione della pubblicazione del saggio "Editoria, media e religione" edito dalla Libreria editrice vaticana (Lev), il SIR ha incontrato don <b>Giuseppe Costa</b>, direttore della Lev e curatore del volume, per riflettere sul momento che il libro religioso sta vivendo in Italia. "L'idea di un testo dedicato al rapporto tra editoria, media e religione nasce da un'osservazione di base: la centralità che il problema religioso ha assunto nel dibattito culturale. Da questo interesse - sottolinea don Costa - è nata la volontà di raccogliere i libri religiosi che hanno fatto storia, rivoluzione e cambiamento dall'epoca di Gutenberg ad oggi. Una storia dell'editoria ricostruita attraverso il libro religioso, visto come risposta alle istanze riformatrici di ogni epoca. Questa riflessione iniziale è stata poi estesa agli altri strumenti mediatici, cogliendo lo specifico di ciascuno di essi".<br /> <br /><b>
Don Costa, quali sono le caratteristiche del linguaggio religioso? </b><br /> "Il linguaggio religioso rientra nei sottosistemi del linguaggio generale. È parlato dagli addetti ai lavori ma possiede anche una collocazione specifica all'interno del contesto linguistico. Pur essendo settoriale, non si può dimenticare la sedimentazione nel tempo e il radicamento nei riti e nelle singole coscienze. Come linguaggio legato ad un sottosistema, ha bisogno di essere studiato e usato correttamente. Come sottosistema di un linguaggio più generale, ha bisogno di essere ricollocato e interpretato alla luce delle caratteristiche che lo contraddistinguono. In ottica epistemologica, poi, è necessario valutare lo specifico di ogni medium: il blog religioso, ad esempio, è diverso da un diario spirituale scritto nel silenzio della propria camera". </span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> <br /><b>
Che formazione deve avere chi lavora nei media cattolici? </b><br /> "Dalla complessità del fenomeno religioso deriva la necessità di una preparazione approfondita e pluridisciplinare per gli operatori della comunicazione impegnati nell'ambito dell'informazione. Nasce così l'urgenza di una formazione solida e complessa, in linea con le peculiarità del linguaggio stesso. Da qui l'esigenza di conoscere la filosofia, il simbolo, la storia, la sociologia, la letteratura. Chi fa informazione religiosa non può prescindere da un background culturale che comprenda studi teologici, ecclesiologici e linguistici. È importante superare la concezione che sia sufficiente avere un'infarinatura generale da vecchio catechismo di paese. Non è possibile interpretare un fenomeno religioso, infatti, senza possedere le categorie e gli strumenti necessari per approcciare un universo simbolico tanto articolato". <br /> <br /><b>
L'editoria gioca un ruolo di primo piano nel panorama culturale. Che situazione vive oggi il libro religioso? </b><br /> "Benedetto XVI ha portato un cambiamento significativo dal punto di vista culturale: con i suoi libri e le sue encicliche, seguiti dai lettori e posizionati nei primi posti delle classifiche, il Papa ha costretto le librerie laiche a vendere i suoi scritti. E dietro ai volumi del Pontefice, stanno venendo fuori altre pubblicazioni che richiamano l'attenzione delle librerie laiche. In questo senso si sta aprendo una prospettiva interessante per il futuro, sebbene siamo ancora agli inizi. Anche nell'ultima Fiera di Francoforte, uno dei temi centrali è stato quello legato alla dimensione religiosa. Molti editori si stanno avvicinando al libro di carattere religioso, inserendo diversi titoli in catalogo. Questo passo in avanti è stato reso possibile grazie al fatto che il libro di religione ha ampliato il proprio orizzonte esplorativo, non coincidendo più con la sola liturgia ma allargando lo sguardo al rapporto con la fede, il linguaggio, la società e l'attualità. Un simile spostamento dei confini ha favorito la diffusione del libro. La Lev è stata tra le promotrici di questa nuova tendenza, avvantaggiandosi con la vendita dei diritti del Papa che hanno agevolato il contatto con gli altri editori". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n.76 del 06 novembre 2009</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-55766393165477505472011-09-22T12:16:00.000+02:002012-02-06T12:19:42.684+01:00Il volto di Cristo<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-dE5Ct1wbxrM/Ty-2wBD9BAI/AAAAAAAAAEY/kVBg39ErxjU/s1600/Santo_Volto_Gesu.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/-dE5Ct1wbxrM/Ty-2wBD9BAI/AAAAAAAAAEY/kVBg39ErxjU/s320/Santo_Volto_Gesu.jpg" width="226" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Volto di Cristo</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
Il pesce, l’ancora, la colomba. Tra le immagini scelte dalle prime comunità cristiane per rappresentare la figura di Gesù, l’emblema del pesce è forse quello che meglio incarna la volontà di creare simboli interpretabili soltanto dagli iniziati. Il significato è da ricercarsi nelle lettere che compongono la parola greca iχϑύς, acronimo della frase Iesus Christos Theou Yios Soter ovvero “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Per la nascente comunità cristiana, perseguitata e messa al bando, l’uso del simbolismo diviene necessario per poter richiamare visivamente la fede comune. Così il Cristo Redentore si trasforma nel ritratto del Buon Pastore, nel monogramma ΧΡ, nella colomba o nella fenice che risorge dalla morte.<br />
Bisogna però aspettare il II secolo per trovare la prima immagine di Gesù, graffita sulla parete della scuola degli schiavi imperiali sul Palatino. Un uomo crocifisso con testa di asino e una donna che prega ai piedi della croce. L’iscrizione sottostante recita: “Alessameno adora Dio”. È significativo notare che l’effigie di Cristo più antica a nostra disposizione lo rappresenti con testa di animale. Diverse fonti, tra le quali il pensatore cristiano Tertulliano, attestano la consuetudine pagana di schernire i cristiani come adoratori di un asino. Minucio Felice, nel dialogo “Ottavio”, scrive: “Sento dire che i Cristiani venerano la testa della bestia più spregevole, l'asino, non so per che futile motivo”. Soltanto nel IV secolo Gesù compare in forma antropomorfa nelle catacombe di Comodilla con volto e caratteristiche che ricalcano la tipologia etnica di appartenenza: capelli scuri e mossi, barba folta e lunga. Da questo momento l’idea del ragazzo sbarbato che si ritrova nelle immagini allusive dei primi tre secoli del cristianesimo, derivata dal modello del pagano Apollo, si affianca alla concezione di un uomo più verosimile al Cristo realmente esistito.</span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br /><i>
Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto. (Salmo 89,16) </i><br />
Negli anni che seguono, fino al periodo del Medioevo, l’evoluzione della rappresentazione di Gesù segue un percorso non lineare, complice l’accesa polemica iconoclasta che segna il cammino della Chiesa fino allo scisma del 1054. L’arte bizantina inizia allora una tradizione immutabile che vedrà il Cristo Pantocratore collocato sulla cupola centrale degli edifici, in posizione frontale. Con l’età di mezzo, invece, si assiste ad un cambiamento importante. Scolpita in legno di quercia fra il 969 e 976 per l’arcivescovo di Colonia, la prima grande immagine medievale del Messia lo ritrae in posa profondamente sofferente: Dio è diventato uomo. Il dolore entra nell’arte occidentale e viene fissato nel bronzo da san Bernoardo o dipinto nel libro liturgico con il Cristo che lava i piedi agli apostoli dall’Evangelario di Ottone III.<br />
Umanità, passione ed emotività divengono tratti distintivi dell’arte cristiana e la credibilità visiva della storia rappresentata assume un ruolo chiave nella scultura stilizzandosi nel corso dei secoli con Benedetto Antelami (Deposizione, 1174) e Giovanni Pisano (Crocifissione, 1297). Nella pittura, invece, Cimabue (Crocifisso, 1272-1274) e Giotto (Compianto sul Cristo morto, 1303-1306) segnano una svolta verso la plasticità e la modernità mentre permangono retaggi della cultura bizantina nelle opere di Duccio di Buoninsegna (Maestà, 1308-1311).<br /> <br /><i>
Giusto è il Signore, ama le cose giuste; gli uomini retti vedranno il suo volto. (Salmo 11,7) </i><br />
Con l’Umanesimo si raggiunge il massimo della verosimiglianza naturalistica, grazie all’impiego della prospettiva lineare inventata da Filippo Brunelleschi. Esempio della nuova tecnica è la Trinità (1427) del Masaccio, illusione ottica realizzata nella terza campata della navata sinistra di Santa Maria Novella. Il Cristo umano, ferito e sanguinante, è inchiodato alla croce mentre una colomba scende in volo sulla sua testa: “Se i fiorentini si erano aspettati un’opera arieggiante il gotico internazionale allora di moda a Firenze come nel resto d'Europa - scrive lo storico d’arte Ernst Gombrich -, dovettero rimanere delusi. Non grazia delicata, ma figure massicce e pesanti; non curve libere e fluenti, ma forme angolose e solide”. <br />
Pittore che meglio riassume la concezione dell’arte umanistica è Piero della Francesca che nella Resurrezione (1463-1465) di Sansepolcro sintetizza nel volto calmo di Cristo l’emozione e la sofferenza per il destino umano. Con lui, il Cristo morto (1470-1480) di Andrea Mantegna è tra le più alte produzioni artistiche rinascimentali per genio e raffinatezza condensate nel viso senza vita di un meraviglioso Cristo disteso. Nello stesso periodo, altri protagonisti come Guido Mazzoni si dedicano alla rappresentazione sacra con straordinaria intensità e dipingono la figura del Messia secondo l’intuizione di un’arte popolare. Su tutti, però, spicca il genio di Leonardo che, nell’Ultima Cena (1495-1498), fissa in un istante un momento centrale della vita di Cristo e regala un dipinto di vibrante partecipazione. Scrive l’artista nel “Trattato della pittura”: “Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell'animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.<br />
Affascinati dalla lezione del pittore toscano, Albrecht Dürer (Gesù fra i dottori, 1506) raffigura il volto di un Cristo serio e assorto mentre Lorenzo Lotto (Pietà, 1508) esplora l’umanità recondita del Salvatore. Passando per l’immagine atroce di Matthias Grünewald (Piccola Crocifissione, 1510) si arriva alle opere di Raffaello (Trasfigurazione, 1518-1520) e poi alle meravigliose Pietà di Tiziano e Michelangelo, che nell’esaltazione del corpo trasfigura l’umano in divino. Senza dimenticare artisti come Hugo van der Goes (Altare della Trinità, 1480), Hans Memling (Trittico di Danzica, 1473), Perugino (Ascensione di Cristo, 1496-1498), Botticelli (Compianto su Cristo morto, 1495), e Giovanni Bellini (Unzione di Cristo, 1472-1474). <br /> <br /><i>
Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. (Salmo 27,8) </i><br />
Nel corso dei secoli che avvicinano all’età contemporanea, sono diverse le figure che si susseguono nel panorama dell’arte cristiana. Un cambiamento significativo è quello impresso da Ludovico Caracci che nel Bacio di Giuda (1589-1590) dipinge un Messia diafano e femmineo abbracciato dall’apostolo traditore, scena di seduzione che provoca repulsione. Da qui al culmine della rivoluzione pittorica il passo è breve. L’apice del realismo, di cui la luce diviene protagonista assoluta, è raggiunto con Caravaggio: nella Vocazione di San Matteo (1599-1600) Gesù è un giovane uomo del popolo che punta il dito per indicare l’evangelista, in un gesto che ricorda la mano di Dio impressa da Michelangelo nella volta della Cappella Sistina. Non si possono altresì dimenticare artisti come Bartolomé Esteban Pérez Murillo (San Francesco abbraccia Cristo crocifisso, 1668) o Diego Velázquez, il cui Cristo crocifisso (1631) è opera di grande valore spirituale e simbolico che, nonostante il tragico avvenimento narrato, comunica una sensazione di partecipazione e serenità. E ancora, la “divinità umanata” di Guido Reni, che nel Crocifisso (1639) trova la piena maturazione nell’eleganza fisica del Redentore; la classicità di Nicolas Poussin, con la solenne Sacra famiglia (1648); la grazia di Francisco de Zurbarán nel Cristo crocefisso (1627); e il moderno Giambattista Tiepolo, autore della Resurrezione (1741).<br />
In tempi più recenti, l’immagine di Cristo segue tendenze inedite con il pittore romantico William Turner e il Gesù con barba e capelli rossi del Cristo nell’orto degli ulivi (1889) di Paul Gauguin. Si assiste ad un rinnovato interesse nei confronti dell’arte sacra e il Cristo del Novecento non è più l’esempio di forza e perfezione dei secoli passati, soprattutto dell’Umanesimo. Georges Rouault dipinge il Cristo oltraggiato (1912), ritratto tormentato di un Messia senza sguardo, mentre Renato Guttuso scatena uno stuolo di polemiche con la Crocifissione (1941). Fino ad arrivare ad Andy Warhol, rappresentante di spicco della pop art americana, e all’Ultima cena (1986).<br /> <br /><i>
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? (Salmo 13,2) </i><br />
Accanto all’arte pittorica e scultorea, il cinema è senza dubbio una delle massime forme espressive che si è interessata al sacro: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema - diceva Ingrid Bergman - per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. Tra i numerosi registi che si sono confrontati con l’immagine di Cristo, due esempi contrapposti offrono altrettante visioni di quel volto immortale che attraversa la storia. Al centro di polemiche che hanno diviso la critica tra adulatori e detrattori, La passione di Cristo (2004 ) di Mel Gibson è una pellicola che, al di là delle facili scelte di campo, si presta ad un approfondimento linguistico. La scelta di spingere la rappresentazione delle ultime ore del Redentore ai confini dell’horror e del repertorio granguignolesco non è casuale. Per riflettere sulla portata salvifica del sacrificio di Cristo, Gibson attinge al registro della violenza, crea un’atmosfera cupa e funerea sottolineata dall’uso delle lingue parlate al tempo (latino e aramaico). E fa percorrere a chi guarda, passo dopo passo, la straziante Via Crucis che porta al Calvario in un crescendo di carne e sangue. Forse a ragione, il regista forza i toni per destare dall’atassia mentale un pubblico che ritiene ormai poco impressionabile ma, al contempo, rischia di imporre una lettura ideologica frutto dello sconvolgimento emotivo nel quale ingabbia lo spettatore. Senza lasciare spazio alla capacità interpretativa del pubblico, ritenuto quasi incapace di elaborare autonomamente la narrazione evangelica della morte e Resurrezione del Salvatore.<br />
Dal volto barbuto graffiato nelle catacombe di Comodilla al Cristo dai capelli rossi di Gauguin, la strada dell’iconografia del Redentore racconta l’immagine di un Dio che nasce del cuore degli uomini. Nel 1964 Pier Paolo Pasolini dirige Il Vangelo secondo Matteo, ricostruzione cinematografica delle pagine del Nuovo Testamento scritte dall’apostolo. La sensibilità di Pasolini si discosta dall’idea del Cristo nobile e ieratico per scavare nel realismo sottoproletario, utilizzando attori non professionisti e comparse selezionate all’interno delle comunità contadine che abitano le località rupestri dove il film viene girato. La faccia di Gesù è affidata a Enrique Irazoqui: sopracciglia scure e unite, fronte alta, espressione incerta, naturale. È questo il Cristo di Pasolini. Troppo uomo per non essere Dio.<br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n.3 - Marzo 2009</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-70739329617838487312011-09-07T11:45:00.000+02:002012-02-06T12:07:17.995+01:00Custodi della bellezza. Chiesa e artisti<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-O1G3AnJRCGc/Ty-xDxP4NEI/AAAAAAAAAEI/jzNNrd_ZXNA/s1600/350px-Chapelle_sixtine2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="213" src="http://2.bp.blogspot.com/-O1G3AnJRCGc/Ty-xDxP4NEI/AAAAAAAAAEI/jzNNrd_ZXNA/s320/350px-Chapelle_sixtine2.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Cappella Sistina</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
"Bisogna ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti" perché "se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico", mentre "per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l'arte". Nel giorno della solennità dell'Ascensione (7 maggio 1964), Paolo VI celebra la messa per gli artisti nella Cappella Sistina e ricorda loro che "fra sacerdote e artista c'è una simpatia profonda e una capacità d'intesa meravigliosa". In occasione del 45° anniversario dell'omelia di papa Montini e a dieci anni dalla Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti (4 aprile 1999), giovedì 10 settembre è stato presentato in Vaticano l'incontro di Benedetto XVI con gli artisti che avrà luogo il prossimo 21 novembre. <br /> <br /><b>
Tesori del cielo. </b>Nel ricordare che "l'arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità", <b>Paolo VI</b> sottolinea che gli artisti hanno "anche questa prerogativa, nell'atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito: di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo". Inoltre, prosegue il Pontefice, "il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio" e "in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri" perché "il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Paolo VI insiste sulla necessità di "ritornare alleati": "Noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell'ambito della funzionalità e della finalità, che affratellano l'arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci. </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">E voi - spiega il Papa - dovete essere così bravi da interpretare ciò che dovrete esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volta, più del tema, quel fluido segreto che si chiama l'ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell'arte". Ancora l'8 dicembre 1965, in chiusura del Concilio Vaticano II, Paolo VI indirizza un messaggio agli artisti "custodi della bellezza nel mondo": "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione" e "la bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione". <br /> <br /><b>
Oceano di bellezza. </b>È un'artista a "immagine di Dio Creatore" quello a cui si rivolge <b>Giovanni Paolo II</b>, nella Lettera del 4 aprile 1999. Il Pontefice evidenzia come nessuno meglio degli artisti, "geniali costruttori di bellezza", possa intuire "qualcosa del pathos con cui Dio, all'alba della creazione, guardò all'opera delle sue mani": "Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l'opera del vostro estro, avvertendovi quasi l'eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi". Un elemento centrale della riflessione del Papa, in continuità con le parole di Paolo VI, è il tema della bellezza con cui l'artista vive una "peculiare relazione" e "in un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del talento artistico". Ma gli artisti svolgono un ruolo necessario anche all'interno della società, poiché rendono "un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune", e stringono un legame con il "profondo dell'animo umano" perché "ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto" nel luogo ove "l'aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose". In tal senso la Chiesa ha continuato nel tempo a "nutrire un grande apprezzamento per il valore dell'arte come tale", nonostante si sia creato a volte "un certo distacco tra il mondo dell'arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi". Ciascuna vera ispirazione artistica, conclude Giovanni Paolo II, racchiude in sé "qualche fremito di quel «soffio» con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall'inizio l'opera della creazione" e, per questo, "i vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell'Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n.60 del 11 settembre 2009
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-75225688527362761262011-08-03T12:08:00.000+02:002012-02-06T12:11:42.848+01:00<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-gkrCU7QavTg/Ty-1TVux5fI/AAAAAAAAAEQ/FQ1-mbYScmg/s1600/braille.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="212" src="http://3.bp.blogspot.com/-gkrCU7QavTg/Ty-1TVux5fI/AAAAAAAAAEQ/FQ1-mbYScmg/s320/braille.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Libro in braille</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
"Fare integrazione non significa negare la necessità di ausili e strumenti ma favorire la presa di consapevolezza nei confronti della disabilità. Un obiettivo che si concretizza nell'impegno quotidiano per educare le persone in maniera responsabile rispetto alla disabilità in genere e al mondo della cecità in particolare". A conclusione dei lavori per il XV congresso nazionale del Movimento apostolico ciechi (Mac), <b>Francesco Scelzo</b>, presidente nazionale del Mac, riflette con il SIR sulla missione di un Movimento che "associa vedenti e non vedenti per fare esperienza di comunione nella diversità". Il Mac è un'associazione di laici, ciechi e vedenti, fondata nel 1928 per iniziativa di Maria Motta. Nel corso del congresso, alla presenza dei delegati appartenenti ai 60 gruppi diocesani costituiti sul territorio, è stato nominato il nuovo Consiglio nazionale. Dopo l'elezione di Francesco Scelzo al posto dell'uscente Rino Nazzari, il segretario della Cei, mons. Mariano Crociata, ha celebrato l'Eucaristia esprimendo la vicinanza e la gratitudine dei vescovi italiani. Al termine della messa, mons. Crociata ha consegnato ai presenti un piccolo sandalo con la scritta in braille: "Lungo le strade del mondo, testimoni del Risorto".<br />
L'opera del Mac, spiega il presidente, si articola in "una dimensione personale di supporto alle persone e una comunitaria orientata alla crescita nell'attenzione dell'altro". Non "solo beneficenza, aiuto e assistenza", dunque, ma "integrazione e crescita comunitaria" in rapporto con la Chiesa e "in continuo contatto con le realtà locali per la sensibilizzazione dei parroci e la creazione di percorsi catechetici". Anche con la Caritas, aggiunge Scelzo, è in essere "un legame storico consolidato negli anni, con lo sviluppo di servizi di assistenza indirizzati a persone con esigenze particolari".</span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br /><b>
Corresponsabilità dei laici. </b>Il Mac ha stabilito anche il tema associativo per l'anno 2009/2010: "Fare associazione: una chiamata, una scelta, un impegno". Si tratta di un "invito a riscoprire la dimensione dell'essere laici corresponsabili e associati", spiega al SIR don <b>Renzo Migliorini</b>, assistente spirituale del Movimento, con "la consapevolezza dei nostri limiti e della nostra pochezza, ma anche la certezza che oggi, nella nostra società complessa, pluralistica e frantumata, i laici associati possono mettere in atto azioni più vaste, efficaci e incisive per il miglioramento della società e per il bene comune". Per favorire un'autentica esperienza formativa nella Chiesa e con la Chiesa, sottolinea don Migliorini, è necessario "partecipare alla vita ecclesiastica con l'impegno specifico di essere accanto alle persone disabili, affinché abbiano la possibilità di condurre un cammino di fede e diventare protagonisti nelle comunità cristiane". Tre le aree d'impegno del Mac: "ecclesiale", per promuovere "la partecipazione attiva delle persone con disabilità alla vita della comunità ecclesiale"; "sociale", per "il diritto dei non vedenti ad una proficua integrazione nella scuola di tutti e la promozione dell'autonomia, il sostegno alla famiglia e la collaborazione con insegnanti e operatori"; "cooperazione tra i popoli", con "iniziative di evangelizzazione, istruzione, promozione sociale offrendo collaborazione ad oltre 100 centri missionari sparsi in molti Paesi dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina e dell'Oceania". Inoltre, ricorda Scelzo, "l'attività del Mac si traduce anche nella produzione di strumenti che facilitino l'accesso alla lettura e alla comprensione". A tal proposito, "nei prossimi giorni sarà pubblicata una ristampa aggiornata della Bibbia in braille". <br /> <br /><b>
Diversità.</b> "Non bisogna essere spaventati dalla diversità ma cogliere doni e capacità di ciascuno", precisa don Migliorini, "aiutando le comunità parrocchiali affinché vedenti e non vedenti possano essere attori nell'annuncio del Vangelo e nella condivisione fraterna". Una specificità che caratterizza il Mac, in questo senso, è "quella di accorgersi degli emarginati per aiutare la comunità cristiana a prendersene cura" ed è proprio in questo che "il Movimento si definisce un'associazione ecclesiale riconosciuta dalla Chiesa perché, dentro di essa, ha la missione di far diventare le comunità casa di tutti". Ogni anno, il Mac organizza un raduno in una città italiana per "testimoniare l'importanza e la bellezza di essere associati per una cittadinanza attiva e partecipata". Il prossimo appuntamento con le giornate della condivisione sarà a Parma dal 12 al 14 marzo, sul tema "Associati per una città inclusiva", con l'obiettivo di "costruire comunità ecclesiali e civili che siano casa di tutti, senza barriere ed esclusioni, e dare ragione della speranza". Conclude don Migliorini: "Interrogheremo la città di Parma per vedere se le associazioni sono valorizzate. Attraverso esse, infatti, la città può diventare davvero aperta a tutti. Il contributo delle associazioni, educate ad una mentalità di accoglienza e relazione, può rivelarsi fondamentale per rendere il territorio accessibile a ogni cittadino". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n.80 del 20 novembre 2009
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-54886549952228756592011-07-28T12:52:00.000+02:002012-02-06T12:58:34.322+01:00Il cielo tra Bibbia, letteratura e cinema<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-FRekYF7z43Q/Ty-_iE6oa7I/AAAAAAAAAEo/bqqtIXgemlQ/s1600/318Il_cielo_sopra_Berlino2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="240" src="http://3.bp.blogspot.com/-FRekYF7z43Q/Ty-_iE6oa7I/AAAAAAAAAEo/bqqtIXgemlQ/s320/318Il_cielo_sopra_Berlino2.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il cielo sopra Berlino (1987)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
Figlio e sposo di Gea, la madre Terra, Urano rappresenta per la mitologia greca la divinità primordiale che personifica il cielo. Unico in grado di coprire interamente la superficie terrestre, Urano ebbe da Gea molti figli, tra i quali i sei Titani, le sei Titanidi, i tre Ciclopi e i tre Ecatonchiri. Stanca della violenza e dell’impulsività dello sposo, Gea implora i figli di proteggerla dalla bramosia del padre per prenderne il posto. All’appello materno risponde l’ultimo nato, Crono, che nel sonno evira Urano e ne getta i genitali in mare generando la dea dell'amore, Afrodite. Dal suo sangue caduto sulla terra nacquero le Erinni. <br />
Fin dall’antichità il cielo ha identificato il luogo etereo della dimora di Dio e, nel corso dei secoli, ha offerto lo spunto di riflessione preferenziale per l’approfondimento del ragionamento scientifico, filosofico e teologico. In quasi tutte le lingue moderne, lo stesso termine “cielo” allude in maniera ambivalente al referente oggettivo e religioso. In inglese, ad esempio, la parola “sky” indica l’atmosfera terrestre mentre “heaven” si riferisce al significato trascendente. Così in ebraico i “shamayim”, forma plurale dei cieli, richiamano il senso religioso e “raqia” il racconto della cosmogonia. Nel periodo del Medioevo, sulla scorta della cosmologia tolemaica, era credenza diffusa che la Terra si trovasse immobile al centro di nove cieli intesi come sfere concentriche. Ogni sfera assumeva il nome dal pianeta che ospitava: Sole e Luna (considerati allora dei pianeti), Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno. A questi si sommava il “cielo delle stelle fisse”, dove erano incastonate le stelle, e il Primum mobile ovvero l’Empireo dove risiedeva Dio. <br />
A ciascun cielo erano associati degli angeli responsabili del movimento. Convinzione che andrà sgretolandosi con le teorie copernicane e del pisano Galileo Galilei. </span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Nel linguaggio della Sacra Scrittura, l’immagine biblica di Dio è spesso associata alle manifestazioni dei fenomeni celesti: il tuono è la voce roboante di Jahvè, i fulmini sono messaggeri della misericordia (“Puoi tu alzare la voce fino alle nubi e farti coprire da un rovescio di acqua? Scagli tu i fulmini e partono dicendoti: ‘Eccoci!’?”) e la tempesta e le nuvole segnano i momenti del suo passaggio (“Il Signore è lento all`ira, ma grande in potenza e nulla lascia impunito. Nell’uragano e nella tempesta è il suo cammino e le nubi sono la polvere dei suoi passi”). Nell’intero arco della narrazione biblica, il cielo è strettamente legato a Dio: “Il Signore si è affacciato dall'alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte” (Sal 101, 20-21). Il “Dio del cielo” (Gen 24,3) della Bibbia aspetta il ritorno del Figlio (“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio”) e apre i cieli durante il battesimo nel fiume Giordano (“Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). <br />
Insieme all’interesse della religione per la dimensione spirituale del cielo, che nella sua vastità e immensità spaziale avvicina l’uomo alla divinità, anche nella letteratura è possibile trovare frammenti del firmamento celeste. Tralasciando l’antichità e i riferimenti di Plinio il Vecchio, in San Francesco troviamo un’esaltazione benedicente nel Cantico delle creature: “Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumeni noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle”. Con Dante, poi, la scrittura diviene strumento poetico nella narrazione del cielo. Nel sedicesimo canto del Purgatorio, il fiorentino ragiona sul motore primo che regola le azioni degli uomini: “Voi che vivete, ogni cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto. / Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, / lume v’è dato a bene e a malizia, / e libero voler; che, se fatica / nelle prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica”. E ancora, nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare Dante scrive così della sua amata Beatrice: “Ella si va, sentendosi laudare, / benignamente d’umiltà vestuta; / e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”. <br /> <br />
A cavallo tra il XVI e XVII secolo, nell’Inghilterra dei Tudor e degli Stuart, William Shakespeare fa dire ad Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Sempre in Inghilterra, due secoli più tardi, John Keats dedica un inno alle Musiche d’autunno: “Dove sono i canti di primavera? / Dove sono? / Non ci pensare: tu pure hai la tua musica / quando nubi dolci avvolgono il giorno / che muore e tingon di rosa / le pianure di stoppie. / Allora s’alza il coro lamentoso / dei moscerini / tra i salici del fiume, portati in alto / o abbassati / col respiro e il silenzio del vento; / e gli agnelli belano forte sulla collina; / cantano nelle siepi i grilli; / ed il pettirosso leva il canto acuto / da un giardino; e trillano nel cielo, / raccogliendosi, le rondini”. <br />
Nell’Italia degli anni tra fine Ottocento e inizio Novecento, l’emiliano Giovanni Pascoli compone la poesia Novembre. Sebbene l’incanto di un estate a san Martino offra lo spunto per l’apertura del canto, un profondo senso di angoscia pervade i versi: “Gemmea l’aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l’odorino amaro / senti nel cuore... / Ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al pié sonante sembra il terreno. / Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. È l’estate, / fredda, dei morti”. Nelle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi di Gabriele D’Annunzio, il termine “cielo” ricorre 136 volte. Tra le altre, nella “Laus vitae” del primo libro si legge: “E d’essere un uomo / più non mi sovvenne, / poi che il mio cuor palpitava / su la terra e nel cielo / con un palpito sì grande”. Infine, Carlo Emilio Gadda dipinge ne La cognizione del dolore un cielo tetro e doloroso: “Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talvolta delle sue cupe nuvole; che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente”. <br />
Come nella sacra scrittura e nella letteratura, così nel cinema il cielo ha offerto la possibilità di esplorare territori di confine fra la realtà sensibile e quella nascosta agli occhi. Nel 1987 il regista tedesco Wim Wenders dirige la pellicola Il cielo sopra Berlino. Damiel e Cassiel sono due angeli che vivono tra la gente, prendendo nota di ogni azione e pensiero dell’umanità che popola Berlino. Gli angeli sono in grado di vedere gli uomini e ascoltare i loro pensieri, nascosti alla vista di tutti nella loro entità spirituale ma riconoscibili dagli occhi dei bambini. Conoscono ogni cosa, scendono nei pensieri più reconditi delle persone e scavano nelle loro emozioni ma non possono provare sentimenti. In questa apatia emotiva che caratterizza la loro presenza sulla terra, gli angeli si incontrano spesso nella Biblioteca di Stato dove troviamo anche il vecchio Homer, un uomo anziano che come il poeta Omero desidera un mondo che ritorni ritorno ai valori autentici di un’epica della pace. Nel suo vagabondare per la città, Damiel incontra la trapezista Marion e se ne innamora. Con l’aiuto di un regista che un tempo era stato angelo, Damiel sceglie di rinunciare all’eternità in nome dell’amore. La caduta dall’immortalità lo lascia ferito e sanguinante ma per la prima volta sperimenta cosa significa essere uomo: vede i colori, prova i sapori e avverte le sensazioni di un corpo vivo. E mentre Damiel e Marion inseguono il loro amore, Cassiel li osserva malinconico nel grigio della sua esistenza. La contrapposizione tra uomini e angeli è resa da Wenders con un interessante alternanza cromatica: il punto di vista etereo è rappresentato con una tinta monocromatica mentre quello umano risplende della totalità dei colori. Un espediente che aiuta a comprendere la diversità esperienziale tra due realtà incapaci di provare le stesse emozioni. La rinuncia alla vita ultraterrena è, nella visione del regista, una caduta non solo fisica ma spirituale che descrive il passaggio alla pienezza della condizione umana. La sola che, sembra dire Wenders, nonostante la contraddittorietà delle sue manifestazioni è capace di regalare sentimenti e passioni vere. E rende possibile il sogno di un amore che supera le distanza tra il cielo e la terra. <br /> <br />
Numerosi altri cineasti hanno portato sul grande schermo il firmamento celeste: il commovente Settimo cielo (1927) di Frank Borzage, l’elegante commedia Il cielo può attendere (1943) di Ernst Lubitsch, il neoralista Cielo sulla palude (1949) di Augusto Genina, il disperato Il cielo è rosso (1950) di Claudio Gora, il cortometraggio Il palloncino rosso (1956) di Albert Lamorisse, il poetico Un ettaro di cielo (1959) di Aglauco Casadio. Più recente è Il cielo cade (2000) dei gemelli Frazzi e Rosso come il cielo (2005) di Cristiano Bortone.<br />
Ma il cielo ha ispirato anche i personaggi di film a tematica non direttamente religiosa. È il caso di Truman Burbank, protagonista del lungometraggio di Peter Weir The Truman Show (1998). Sposato con una compagna di scuola e con un lavoro stabile, Truman conduce un’esistenza monotona e sogna di visitare terre lontane. Ma un giorno, dopo una serie di coincidenze inspiegabili, si va definendosi sempre con maggiore chiarezza una verità inimmaginabile: Truman vive al centro di un immenso reality show, circondato da attori che interpretano i ruoli delle persone a lui più care. Deciso a ribellarsi, sale su una barca a vela e sfida la sua paura più grande: l’acqua. Quando sta per scappare dal controllo degli ideatori del programma, Truman viene colto da una tempesta di mare gestita al computer dall'équipe di regia. La barca si ribalta, viene sommersa dall’acqua ma Truman sopravvive. E tocca il cielo all’orizzonte, dipinto sulle pareti del gigantesco studio televisivo. Un cielo di cartone, artificiale come l’esistenza che ha vissuto, nel quale però si apre una porta sulla vita reale. E Truman, che ha raggiunge il cielo nel momento più disperato, sarà in grado di salire quei pochi gradini che conducono alla libertà. Perché in fondo, soltanto quando si cade e si è distesi a terra, è possibile guardare davvero il cielo. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n.5 - Maggio 2009</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-82637555087839486102011-07-14T12:33:00.000+02:002012-02-06T12:48:39.552+01:00<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-V-VIzkwVd9M/Ty-928nDx7I/AAAAAAAAAEg/0hIPyyEIuSw/s1600/vietnam-dod-zuma-press-large.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="191" src="http://2.bp.blogspot.com/-V-VIzkwVd9M/Ty-928nDx7I/AAAAAAAAAEg/0hIPyyEIuSw/s320/vietnam-dod-zuma-press-large.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Soldati in Vietnam</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
1898, porto dell’Avana. Il cacciatorpediniere statunitense Maine, ancorato in acque cubane, esplode misteriosamente causando la morte di 260 persone. La stampa, ed in particolare il “New York Journal”, diffonde accuse e voci di sabotaggio rivolte agli spagnoli contribuendo a generare un clima di aspettativa per un intervento armato che miri a liberare Cuba dal dominio iberico. Su pressione dell’opinione pubblica il presidente William B. McKinley approva una risoluzione del Congresso che intima l’immediato ritiro delle forze militari spagnole dall’isola e, di fronte al rifiuto opposto da Madrid, giunge all’attesa dichiarazione di guerra. Per la prima volta, il potere dei media gioca un ruolo fondamentale nel dare inizio ad un evento bellico ed offre lo spunto per riflettere sull’importanza che l’informazione ricopre nella narrazione della realtà.<br />
Guerra e mass media sono legati da un rapporto profondo. Fatta eccezione per la stampa, la natura stessa dei mezzi di comunicazione di massa è debitrice nei confronti delle tecnologie sviluppate in ambito militare: la radio nasce per esigenze di comunicazione tra soldati, la televisione si sviluppa a partire dal radar e internet è figlio di un progetto avviato dal Ministero della Difesa statunitense per consentire il passaggio di informazioni anche in caso di attacco nucleare. Il legame si intreccia poi ancor di più per ragioni economiche e commerciali, dal momento che la guerra è per i media un terreno fertile dal quale raccogliere materiale che possa essere venduto al pubblico. A queste, si aggiungono anche le logiche giornalistiche che regolano il sistema: utilizzati per definire l’idoneità di un fatto a trasformarsi in notizia, i criteri di notiziabilità” rispondono a parametri di tempo, attualità, pubblico interesse, vicinanza fisica, importanza dei protagonisti e inusualità nonché conflittualità, emotività e drammaticità dell’evento narrato. Sono queste premesse che rendono evidente l’interesse mediatico per i fatti di guerra, rispetto ai quali l’intera collettività mostra una maggiore domanda di informazione che si trasforma in un surplus monetario per le imprese dei media. Ma la funzione svolta dal sistema informativo si estende anche al controllo e al racconto di quanto accade nelle sale dei bottoni e, soprattutto, nelle zone di conflitto.</span><br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br />
La guerra di Crimea del 1854 segna l’inizio di una nuova consuetudine: per l’occasione il “Times” decide di spedire al fronte William Howard Russell, di origine irlandese, inviato in prima linea per redigere un resoconto fedele degli avvenimenti. Con i suoi reportage Russell provoca le prime tensioni fra e politica, componendo articoli che mostrano le difficoltà patite dall’esercito inglese e contraddicono la sensazione di serenità ritratta nelle fotografie commissionate dal governo. Inizia così una relazione di prossimità e lontananza che si estenderà fino ai nostri giorni con esempi quali la guerra di Corea e del Vietnam, che vedono i giornalisti schierati in prima linea e meno legati ai condizionamenti politici, o la tragedia dell’11 settembre 2001, che provoca un’immediata reazione di vicinanza dei media rispetto alle scelte interventiste dell’amministrazione Bush per dare vita soltanto in un secondo momento ad una pluralità di voci su un conflitto ormai avviato. Ma non tutte le guerre meritano di essere trattate allo stesso modo. Al di là dei casi incresciosi della Bosnia-Erzegovina e del Rwanda, conflitti che hanno mostrato il lato negativo e fuorviante dei media, c’è una parte di mondo in armi che non trova voce nel mainstream informativo. Ad oggi, sono circa 30 le guerre in corso e di queste soltanto un numero limitato riceve copertura da parte dei media. In particolare l’Africa sembra essere un continente dimenticato: migliaia di persone morte e rifugiate per via di ostilità che si protraggono ormai da decenni, non riescono a trovare il dovuto spazio nel flusso d’informazione degli organi di stampa. Un meccanismo che si verifica per motivi economici, culturali e soprattutto di ingerenza dell’agenda politica nell’orientare i media ad interessarsi di determinati conflitti soltanto quando ci sono interessi in gioco.<br /> <br />
Nel dualismo tra guerra e mass media è significativo notare anche l’attenzione che questi ultimi dedicano agli operatori di pace. Insignita del premio Nobel per la Pace nel 1979, Madre Teresa di Calcutta è l’esempio dell’interesse che gli organi di informazione possono riservare a coloro che impegnano la propria vita in prospettiva di un mondo migliore. È proprio grazie ad un servizio televisivo, realizzato da Malcolm Muggeridge della BBC nel 1969, che la beata di Skopje ha raggiunto una fama internazionale per il suo impegno incondizionato a favore dei più poveri. Durante le riprese del documentario, si racconta che una parte della pellicola si fosse rovinata a causa delle precarie condizioni di illuminazione. Ma in fase di montaggio tutto girò alla perfezione e lo stesso Muggeridge, gridando al miracolo, si convertì al Cristianesimo. <br />
La figura di Teresa non è la sola ad aver richiamato l’attenzione dei media. Per la sua spontaneità e capacità di comunicare attraverso il linguaggio del corpo, Giovanni Paolo II è stato il primo “Papa mediatico” della storia. Attento e fiducioso nei mass media, da lui stesso definiti “primo areopago del tempo moderno” nell’enciclica Redemptoris Missio, Giovanni Paolo II si è impegnato per la promozione degli strumenti di comunicazione all’interno della Chiesa ed è stato lui stesso grande comunicatore in ogni momento della sua esistenza: “Così come si è mostrato forte, energico, vigoroso nei primi anni del pontificato, allo stesso modo lo ha fatto nella malattia, quando il corpo si faceva più debole. E fino all’ultimo istante - spiega Mauro Buonocore -, la tv era lì a sottolineare l’eccezionalità della persona di Giovanni Paolo II, a disegnare un’aureola mediatica intorno al corpo di Karol Wojtyla”. Ma Giovanni Paolo II è stato anche il “Papa dei gesti” che ha saputo catturare l’attenzione di media e pubblico: la frase pronunciata dalla loggia di San Pietro dopo l’elezione, l’abbraccio ad un gruppo di persone disabili in occasione della cerimonia di inizio pontificato o il cappello piumato posto sul capo nel viaggio in Nuova Guinea sono segni di un Papa che ha fatto della fisicità e dell’apertura nei confronti di ogni uomo la cifra della sua missione terrena. <br />
Dietro a questi grandi personaggi ci sono però tanti operatori di pace che non trovano la ribalta dei potenti media commerciali ma si ritagliano ugualmente uno spazio nel panorama variegato dell’informazione. Scriveva Martin Luther King, uomo di pace e nemico di ogni oppressione: “Ignorare il male equivale ad esserne complici”. Un monito per tutti coloro che, attraverso gli strumenti di comunicazione, hanno il compito di servire il prossimo e cooperare per la costruzione di un mondo più giusto. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n.12 - Dicembre 2008</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-17678437807491665362011-06-08T13:00:00.000+02:002012-02-06T13:04:31.972+01:00I monaci in Cina. Intervista con Matteo Nicolini-Zani<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-X-ZjVHIVJEE/Ty_BIV_KO8I/AAAAAAAAAEw/T7nzuvjLay0/s1600/Matteo_Ricci.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://2.bp.blogspot.com/-X-ZjVHIVJEE/Ty_BIV_KO8I/AAAAAAAAAEw/T7nzuvjLay0/s320/Matteo_Ricci.jpg" width="246" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Matteo Ricci (1552-1610)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
"I primi missionari cristiani in Cina di cui abbiamo notizia, tra il VII e il IX secolo, sono stati dei monaci. A quel tempo non era una cosa strana per la Chiesa assira, al cui interno il monachesimo era fiorente e sviluppato. La Cina è stato il punto di arrivo di numerose missioni verso est: monaci che partivano dalla Mesopotamia o dalla Persia raggiungevano l'impero asiatico per confrontarsi con un contesto culturale e religioso tanto differente da quello cristiano". A conclusione del simposio "Mission and Monasticism" (Roma, 7/9 maggio) organizzato dalla Facoltà teologica del Pontificio Ateneo Sant'Anselmo in collaborazione con diverse Congregazioni monastiche per riflettere sulla relazione tra monachesimo e missione in chiave storico-teologica, <b>Matteo Nicolini-Zani</b>, monaco della Comunità di Bose e relatore al convegno in qualità di esperto di storia del cristianesimo in Cina, riflette sull'impegno missionario monastico nel gigante asiatico. "La prima missione dei monaci sino-orientali - spiega Zani - coincideva con la dinastia Tang. Un periodo di grande apertura che ha permesso l'arrivo in Cina di molte religioni, anche grazie alle possibilità offerte dalla Via della Seta e dai commerci che si svolgevano in Asia centrale". Al monaco di Bose abbiamo rivolto alcune domande.<br /> <br /><b>
Qual è la situazione odierna della presenza missionaria monastica in Cina? </b><br />
"Bisogna aspettare la seconda metà del XIX secolo per vedere i primi monaci occidentali, cistercensi e benedettini, sul territorio cinese. Tuttavia, a causa della Rivoluzione comunista, quest'esperienza non ha avuto lunga durata e fino a poco tempo fa non si è più parlato di missionarietà monastica in Cina. Oggi, però, c'è un rinnovato desiderio nella Chiesa cinese di dare seguito a questa dimensione essenziale della spiritualità cristiana. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, la presenza religiosa femminile ha potuto riprendere ufficialmente e al momento ci sono diverse Congregazioni femminili di vita attiva e contemplativa. Ma le autorità politiche e l'Associazione patriottica cattolica cinese (divisione dell'Ufficio affari religiosi della Repubblica popolare cinese creata nel 1957 per controllare le attività dei cattolici nel paese, ndr) non hanno mai permesso la nuova fioritura di una vita religiosa maschile. </span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Ci sono tuttavia dei segnali di ripresa, come le collaborazioni con alcune comunità tedesche di missionari benedettini ai quali la Chiesa cinese si sta appoggiando per avere aiuto nella formazione dei primi monaci. Il discorso, poi, si fa più complesso se si pensa alle comunità cattoliche clandestine, all'interno delle quali ci sono ancora sparute presenze di monaci che sopravvivono con grandi difficoltà".<br /> <br /><b>
Che ruolo hanno le comunità monastiche nei processi di dialogo interreligioso tra fede cristiana e spiritualità orientale? </b><br />
"Dalle poche testimonianze che abbiamo della presenza monastica nel passato, vediamo che c'è stato un momento di confronto e interazione profonda con le grandi religioni presenti in Cina. In particolare con il buddismo, più organizzato e strutturalmente vicino al modello monastico delle altre, i cui monaci erano spesso in contatto con quelli cristiani. Nonostante quest'esperienza sia terminata dal punto di vista storico, il dialogo tra le religioni è ancora molto sentito nel monachesimo. Un organismo internazionale con sede in vari paesi europei, il Dialogo interreligioso monastico, organizza scambi con monaci buddisti soprattutto del Giappone. È un impegno che continua, nel confronto di vite e di esperienze più che nel dibattito teologico, al fine di permettere la conoscenza reciproca. Per la Cina, purtroppo, questa possibilità di incontro è ancora molto difficile da realizzare ma si sta lavorando nella giusta direzione".<br /> <br /><b>
È ancora possibile parlare di "inculturazione", secondo un modello che tenga conto delle realtà autoctone e introduca in esse l'insegnamento della Chiesa? </b><br />
"Non solo è possibile ma auspicabile. È indispensabile fare tesoro delle esperienze passate e impegnarsi con ancora maggiore slancio in questo campo, modificando il paradigma teologico secondo un diverso approccio missionario capace di comprendere che non è possibile portare un modello cristiano culturalmente occidentale in un contesto tanto differente come la Cina. Fare questo è possibile e ci sono già esempi di impegno concreto che invitano a ritenere che questa pista sia percorribile: missionari, persone che lavorano in Asia e che sono quotidianamente in contatto con tradizioni culturali e religiose locali. C'è oggi un interesse molto più forte del passato, che lascia intravedere un futuro aperto a nuove soluzioni attente ai mutati contesti socio-culturali. Se si desidera che il cristianesimo abbia un futuro in Asia, non ci può essere altra strada da percorrere". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n. 33 del 13 maggio 2009
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-25977507273746529612011-06-01T13:05:00.000+02:002012-02-06T13:07:56.435+01:00Emergenza educativa. Intervista con don Aldo Giraudo<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-6r6ri3UQzZ8/Ty_CLLAp68I/AAAAAAAAAE4/c1MEb21CZhg/s1600/donbosco.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://2.bp.blogspot.com/-6r6ri3UQzZ8/Ty_CLLAp68I/AAAAAAAAAE4/c1MEb21CZhg/s320/donbosco.jpg" width="232" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">San Giovanni Bosco</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"L'urgenza educativa non può essere separata dal sentirsi prete, all'interno di una visione del sacerdozio che è quella di una persona che si consacra totalmente alla cura del suo popolo e che ha un forte senso della propria identità nell'attenzione alle persone e ai loro problemi. È questo il contributo di don Bosco, non un teorico dell'educazione ma un educatore, pastore e amico dei giovani". In occasione del 150° anniversario dalla fondazione della Società Salesiana, don <b>Aldo Giraudo</b>, docente di storia della spiritualità all'Università Pontificia Salesiana, parla al SIR dell'educazione e del sacerdote-educatore alla luce dell'insegnamento di san Giovanni Bosco. "Di fronte ad un problema concreto, con sguardo animato dalla carità e senso di responsabilità pastorale, non ci si può limitare alla segnalazione del problema ma bisogna sentirsi interpellati a rispondere" perché "l'educazione deve abbracciare l'uomo in tutte le sue dimensioni e non può essere ridotta ai processi educativi, alla competenza dell'educatore e al riferimento ad una filosofia pedagogica".<br /> <br /><b>
Il Papa nell'indire l'anno sacerdotale si è soffermato anche sul ruolo educativo del prete: in che modo dovrebbe essere svolto questo compito ? </b><br />
"Don Bosco ricordava che i ragazzi di oggi sono gli uomini di domani e la società di domani rispecchierà il tipo di educazione che noi diamo oggi ai ragazzi. Questa urgenza la percepiva all'interno di una visione pastorale e missionaria, sul modello di prete che si sente responsabile di fronte a Dio di tutti coloro che incontra sul cammino. Anche l'oratorio non è soltanto un luogo in cui i giovani trovano un prete che si prende cura di loro dal punto di vista dell'istruzione religiosa e della cura sacramentale, ma è soprattutto casa che accoglie, scuola che prepara alla vita, parrocchia che evangelizza, cortile per incontrarsi e vivere in allegria. </span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">È una visione gioiosa della vita, liberata da ogni ripiegamento. Oggi si deve guardare all'urgenza educativa in chiave vocazionale, con un'attenzione alla condizione concreta dei giovani. Occorre rispondere alle loro attese incoraggiandoli nella ricerca e nelle scelte. La dimensione religiosa si deve coniugare con l'immersione nella storia, in adempimento ai doveri di ciascun uomo: buoni cristiani e onesti cittadini". <br /> <br /><b>
In don Bosco è centrale il trinomio "ragione, religione, amorevolezza": come declinarlo con il principio educativo dell'autorità? </b><br />
"Fatti amare se vuoi farti temere, fatti amare prima di farti temere e fatti amare piuttosto che farti temere. È questo il messaggio di don Bosco. L'amorevolezza è la chiave di tutto perché quando si conquista il cuore del ragazzo, allora si è conquistata autorevolezza. In questa dialettica, la figura dell'educatore è centrale e deve dimostrare grande padronanza di sé e rispetto totale nei confronti dei giovani. Il sistema preventivo salesiano offre proposte precoci di grandi ideali: formazione della mente e del cuore, cultura e catechesi, arte e musica. Processi ragionevoli inseriti in un sistema di valori cui ispirarsi". Nel recente forum sull'emergenza educativa promosso dal servizio Cei per il progetto culturale, si è parlato di bambini e di intellettuali. Come interpreta questo "accostamento"? "Se l'educatore è chiamato ad una presenza continua e amorevole, l'educando deve mostrare fiducia e confidenza. Quando il ragazzo si affida veramente, allora il successo educativo e spirituale è garantito. L'obiettivo non è educare oggi ma creare le condizioni affinché anche in futuro si possa parlare agli uomini di domani. Per fare questo, è necessario valorizzare i ragazzi e renderli responsabili dell'educazione dei loro compagni. Tuttavia, ricorda don Bosco, non bisogna mai imporre nulla ma dialogare in un clima di libertà. Ciascuno deve condurre un personale cammino di maturazione".<br /> <br /><b>
Don Bosco curava il linguaggio ben sapendo che se non fosse stato capito dai giovani avrebbe corso il rischio del fallimento. E oggi?</b><br />
"Non basta amare, bisogna fare in modo che i ragazzi capiscano di essere amati. Si può parlare di un linguaggio dell'amore. Bisogna amarli nelle cose che loro amano e far sì che questo linguaggio sia compreso. L'educando recepisce i valori e le motivazioni attraverso l'amore dell'educatore. Il sistema repressivo è molto facile per gli educatori e difficile per i ragazzi. Il sistema preventivo invece è l'esatto opposto e l'educatore, scriveva don Bosco, deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo e ogni fatica per conseguire il suo fine che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi. Il segreto del successo del sistema educativo salesiano è la capacità di adattarsi culturalmente e storicamente a contesti molto diversi. Funziona anche nei Paesi arabi perché non opera a livello di proselitismo ma si lavora su valori universali nel dialogo e nel rispetto reciproco". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n. 30 del 29 aprile 2009</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-80528953931866842892011-05-30T13:09:00.000+02:002012-02-06T13:13:20.074+01:00La Bibbia nella storia del cinema<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-rYWiH5xQuEc/Ty_DNbsRv3I/AAAAAAAAAFA/HCAlt0YG-qQ/s1600/Pasolini.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://3.bp.blogspot.com/-rYWiH5xQuEc/Ty_DNbsRv3I/AAAAAAAAAFA/HCAlt0YG-qQ/s320/Pasolini.jpg" width="224" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Pier Paolo Pasolini</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
“Datemi due pagine a caso della Bibbia e vi darò un film”. È con questo spirito che Cecil Blount De Mille, tra i primi e più conosciuti registi statunitensi, si avvicina alla ricchezza espressiva e simbolica contenuta nel Libro sacro. L’aforisma di De Mille racchiude una considerazione più generale sulle modalità attraverso le quali il cinema si è appropriato della Bibbia. Pervasa da una tensione drammatica che accompagna molti passi della scrittura, la Bibbia possiede una caratteristica che la rende terreno fertile dal quale far germogliare adattamenti cinematografici: la forza narrativa. Il messaggio salvifico contenuto nel Libro, mirabile racconto del rapporto più intimo tra Dio e l’uomo, viene spesso rappresentato per mezzo di una storia: dalla creazione del mondo descritta nel Genesi alla vita di Cristo riferita dai Vangeli, la salvezza dell’umanità è affidata alla narrazione di fatti e vicende. Una narrazione che, nella semplicità, custodisce ed evoca il significato profondo della Scrittura.<br />
Grazie a questa predisposizione naturale al “raccontare” ed “essere raccontata”, la Bibbia è divenuta presto oggetto d’interesse da parte del cinema. Per ragioni che probabilmente attengono alla necessità di nobilitare la nuova arte appena nata, già il cinema francese dei primi anni si ispira al racconto biblico producendo diverse pellicole tra le quali Passion Lumière (1897) di Georges Hatot, Christ marchant sur les eaux (1899) di George Méliès o Les Reomords des Judas (1909) di Henri Lavedan. Da quel momento iniziale, il cinema si appropria della Bibbia e la riproduce sul grande schermo in modo eterogeneo, spogliandola del valore simbolico e del messaggio inscritto nel testo o vivificandola nel significato profondo che la Scrittura serba e disvela. Semplificando la produzione cinematografica di tema biblico, si può effettuare una classificazione che serva al caso specifico differenziando due filoni principali di film: quelli di esplicito richiamo alla narrazione della Bibbia e quelli che si ispirano ad essa in maniera non diretta. </span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br />
Seguendo un ordine cronologico, le pellicole che rientrano nella prima categoria appartengono inizialmente ai pepla o sandal movie. Nel 1923 De Mille, icona del genere, realizza I dieci comandamenti. Prima megaproduzione biblica del regista, che investe un budget di oltre un milione di dollari, il film muto è strutturato in due parti: il prologo biblico, con la liberazione del popolo giudeo e la salita di Mosè sul monte Sinai, e l’episodio di ambientazione moderna, storia di due fratelli che si contendono la stessa donna. Ventitre anni più tardi, nel 1956, De Mille gira un remake dello stesso film mantenendo il titolo invariato e riutilizzando numerose sequenze del precedente, con una spesa di tredici milioni di dollari. Nelle sue opere De Mille traduce la Bibbia con una magnificenza spettacolare, frutto dell’impiego di tutte le tecniche di effetti speciali allora disponibili, e un vigore narrativo che sembrano riempire di suoni il silenzio necessario all’ascolto della parola sacra. Tuttavia, merito dei suoi lungometraggi è quello di far conoscere porzioni di Bibbia al grande pubblico non dimenticando, nell’altisonanza del suo cinema, momenti di delicata intimità. Tra i molteplici film biblici diretti da De Mille, meritano una menzione Il segno della croce (1932), Sansone e Dalila (1949) e Il re dei re (1961). Dello stesso periodo, due altre produzioni cinematografiche attingono al materiale offerto dalla narrazione biblica per confezionare una sceneggiatura ambientata in epoca romana: Quo vadis? di Mervyn LeRoy (1951), storia d’amore fra un patrizio e una cristiana al tempo della persecuzione di Nerone, e Ben Hur (1959) di William Wyler, magniloquente rappresentazione delle vicende dell’ebreo palestinese Ben Hur. Nel colossal di Wyler, realizzato trentacinque anni dopo l’omonima pellicola di Fred Niblo, trovano spazio alcune scene della Passione di Cristo. La Bibbia, dunque, si rivela miniera inesauribile da cui ricavare spunti per la realizzazione di film che talvolta esulano dall’elemento religioso, relegato in secondo piano, a vantaggio di una opulenza rappresentativa. Il 1966 è l’anno della pellicola realizzata da John Huston, La Bibbia. Regista ateo, Huston gira un lungometraggio sui primi 22 capitoli del Genesi prodotto da Dino De Laurentiis. Non eccellente quanto a giudizio complessivo, La Bibbia regala però riprese suggestive del diluvio universale con la costruzione dell’arca per salvare Noè, la sua famiglia e gli animali di ogni specie. Tra le pellicole di esplicito richiamo alla narrazione bibliche, occupano un posto di rilievo quelle che affrontano i Vangeli e la vita di Cristo. <br /> <br />
Nel 1957 Jules Dassin cura la regia di Colui che deve morire, ambientato in un villaggio greco dell'Asia Minore durante l'oppressione turca. Qualche anno più tardi, nel 1963, un regista italiano realizza un’opera di forte impatto contenuta nella pellicola Ro.Go.Pa.G.: Pier Paolo Pasolini gira il quarto episodio, dal titolo La Ricotta. Il sottoproletario Stracci viene scritturato per vestire i panni del buon ladrone in un film sulla Passione di Cristo. Durante una pausa dalle riprese, Stracci si abbuffa di ricotta per poi morire d’indigestione inchiodato alla croce. Sequestrato per vilipendio alla religione di Stato al momento della sua uscita nelle sale, La Ricotta mette in scena un ritratto profondamente intenso e religioso della figura del Redentore: Stracci, che muore sulla croce deriso da una troupe immorale e grottesca, è l’incarnazione del Cristo ucciso da un mondo superficiale e distratto. Un gioiello della produzione cinematografica di Pasolini che, l’anno seguente, realizza uno dei suoi capolavori: Il Vangelo secondo Matteo. Dice il regista: “Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente”. Nasce così un lungometraggio che mostra con l’occhio laico di Pasolini la vita del Cristo raccontato dall’Evangelista, mettendone in luce soprattutto l’umanità e regalando, nel misto di tristezza e solitudine che pervade il film, un’opera poetica e religiosa. La pellicola, che vale al regista numerosi premi, fa grande uso della macchina da presa a mano che, nel processo a Cristo, si identifica con la prospettiva di Pietro e non si pone mai al fianco del Redentore quasi ad indicare il limite ontologico cui il cinema deve attenersi. Tra gli altri film che parlano dei Vangeli sono da ricordare il pietoso Il Messia (1975) di Roberto Rossellini, l’opulento Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, il provocatorio L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese, l’imperdibile Jesus of Montreal (1989) di Denys Arcand, lo stentato I giardini dell’Eden (1999) di Alessandro D’Alatri e il crudele La passione di Cristo (2004) di Mel Gibson che, fra stuoli di accuse e polemiche, sceglie la strada di una rappresentazione eccessiva e truculenta per risvegliare le coscienze sopite dell’uomo contemporaneo.<br /> <br />
Nel secondo filone di film, che trattano riferimenti alla Bibbia in maniera implicita, rientrano opere di grande sensibilità cinematografica. In una pellicola come Intolerance (1916) di David Wark Griffith, il regista intreccia quattro grandi storie, con un montaggio parallelo inedito per l’epoca, dando vita ad un affresco sulla condizione umana che si scaglia contro l’intolleranza e si ispira ad un sentire religioso in maniera diretta, nel terzo episodio sulla vita di Cristo, e indiretta, con i richiami all’intervento dal Cielo che fa cadere i fucili dalle mani dei soldati e abbatte le mura delle prigioni. Lasciati gli Stati Uniti e sbarcati in Danimarca, si assiste all’opera di Carl Theodor Dreyer, Dies Irae (1943). Con intensità vibrante, la pellicola narra dell'amore tra il figlio di un pastore protestante e la sua giovane matrigna, accusata di stregoneria dopo la morte del marito: afflitta dall’abulia dell’amante e schiacciata dalla condanna sociale, la donna sceglie di morire addossandosi un delitto di cui non è l’artefice. Nel silenzio di Dio, che è poi invocazione e preghiera del vecchio Absalon, Dreyer dipinge un dramma sulla fragilità dell’uomo che ha perduto la strada della Grazia. La ricerca di Dio è invece il tema centrale del lungometraggio di Ingrid Bergman, Il settimo sigillo (1956). Il viaggio del cavaliere Antonius Blok che, di ritorno dalle Crociate, è tormentato dai dubbi e accetta una partita a scacchi con la morte in un paese schiacciato dalla peste e dal fanatismo, è archetipo del percorso che l’uomo compie per trovare quel Dio che ridona fiducia al cavaliere per mezzo di una famiglia di saltimbanchi. Au hasard Balthazar (1966) di Robert Bresson è, invece, una sublime pellicola che attraverso gli occhi disincantati di un asino racconta i vizi degli uomini e riflette sull’assurdità del male, mettendo in scena la vita e le sofferenze dell’asino Balthazar. Infine, è la volta del Decalogo (1988/1989) di Krzysztof Kieslowski, caso cinematografico che ha riscosso l’attenzione di studiosi e critica. Prodotto per la televisione e girato in circa due anni di lavorazione, il Decalogo è composto da dieci episodi ognuno corrispondente ad uno dei comandamenti. Tutte le storie, che hanno come filo conduttore un rione di Varsavia, non presentano vincitori o vinti e offrono uno spunto di riflessione unico sulla presenza/assenza di Dio e sul senso del peccato. Un’opera imponente che chiede di essere assaporata e meditata. Tra le altre produzioni degne di nota, si ricordano Come in uno specchio (1961) di Ingmar Bergman, Amore e rabbia (1969) di Lizzani, Bertolucci, Pasolini, Sacrificio (1986) di Andrej Tarkovskij e il più recente La leggenda del re pescatore (1991) di Terry Gilliam. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 02 - Febbraio 2008</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-12509763283539676342011-02-18T15:40:00.000+01:002012-02-06T15:49:07.162+01:00Giocare d'anticipo. Intervista con Carlo Nanni<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-Eiq-7FdNWrA/Ty_mLA_a9LI/AAAAAAAAAFw/cIKdnJz28Q4/s1600/don_carlo_nanni.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://3.bp.blogspot.com/-Eiq-7FdNWrA/Ty_mLA_a9LI/AAAAAAAAAFw/cIKdnJz28Q4/s320/don_carlo_nanni.jpg" width="232" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Don Carlo Nanni</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">"La sensazione di sentire che sotto i piedi non si ha la terra ma le sabbie mobili, può portare ad eccessi nei confronti di se stessi e degli altri". Riflettendo sul ruolo dell'educazione nella società contemporanea, don <b>Carlo Nanni</b>, decano della Facoltà di scienze dell'educazione della Università Pontificia Salesiana e consigliere spirituale dell'Uciim (Associazione professionale cattolica di dirigenti, docenti e formatori), condivide le sue impressioni in merito all'emergenza educativa che sfida "le difficoltà di vivere in profondità, superando paure, incertezze e complessità quotidiane". Frequentemente, dice Nanni, "i ragazzi avvertono un vuoto interiore, una ferita che non sanno rimarginare e che provoca sofferenza. In questo partecipano al disagio della civiltà con l'aggravante che, a differenza dell'adulto navigato e sperimentato, non sono in grado di fronteggiare la tempesta con uguale esperienza".<br /> <br /><b>
Qual è il suo giudizio sui recenti fatti di cronaca di Nettuno, dove un gruppo di giovani ha dato alle fiamme un immigrato indiano?</b> <br />
"Credo sia il punto di emergenza di qualcosa di più profondo e diffuso. Di fronte al disagio, si può reagire in modi differenti: implodendo e arretrando su se stessi; manifestando aggressività nella convinzione di trovare qualcosa di esterno su cui indirizzare il proprio malessere; fuggendo dalla situazione, vendendosi a qualunque forma di droga perché lo stordimento non fa sentire e pensare; oppure si può scegliere la strada più umana, prendendo coscienza della situazione e intraprendendo un processo di maturazione interiore. Vivere nel tempo diventa allora crescita, si acquista l'esperienza e si comprende che possono essere raggiunti obiettivi positivi. Quando ci si rende conto che i propri sogni si realizzano almeno in parte, è possibile accrescere l'autostima e la consapevolezza nei mezzi a disposizione". </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br /><b>
Si è parlato di "cosificazione della persona umana"... </b><br />
"Mi domando: perché questi modi di aggressione e non altri? Dipende dall'incapacità di cogliere la profondità della vita, non solo in sé ma anche negli altri. È più semplice cosificarla, oggettivarla, materializzarla, renderla qualcosa di trattabile: a forza di mettere in luce la dimensione empirica ed economicistica, si rischia di dimenticare la sfera spirituale e della trascendenza che non è né cosificabile né oggettivabile". <br /> <br /><b>
Che responsabilità ha la famiglia nella crescita dei giovani? </b><br />
"Si potrebbe riassumere nella locuzione latina: Medice, cura te ipsum (Medico, cura te stesso). Temo che noi adulti comunichiamo angoscia ai giovani. Anche se non lo diciamo, la nostra ossessività è spesso indice di paura. È necessario prendere consapevolezza che la famiglia può essere nuovamente luogo di sicurezza, perché insieme si possono affrontare meglio tutti i problemi. La continuità degli affetti aiuta a non vivere soltanto il momento e la fiducia di base permette di non sentirsi in balia degli eventi senza punti fermi ai quali aggrapparsi. Al di là di tutte le difficoltà, bisogna giocare in positivo con la vita familiare e lavorare sulla cultura della preventività positiva senza affannarsi in una disperata ricerca del possesso. Solo così la famiglia diventa una camera di sicurezza che permette di far respirare ai ragazzi il bene, eliminando il senso del vuoto e mostrando che ci sono altri percorsi possibili. Grazie alla politica della famiglia si dovrebbe promuovere la coesistenza tra sfera pubblica e privata". <br /> <br /><b>
È dunque indispensabile la partecipazione di educatori e istituzioni pubbliche…</b><br />
"La responsabilità educativa deve essere condivisa. La vita è segnata dalla rete relazionale ed è fondamentale l'impegno dell'intera società educante. Tutti devono collaborare alla promozione del bene comune, a livello personale e istituzionale. I diverse strati e gruppi sociali dovrebbero essere confluenti. Nella lettera a Diogneto, si legge: «Come l'anima è nel corpo, così nel mondo sono i cristiani». In qualità di Chiesa dovremmo infondere la vita nel dialogo sociale e nella differenza, senza voler imporre ma contribuendo alla promozione della salute, del benessere e dell'espansione dei mondi vitali. È importante incoraggiare politiche rivolte a singoli educatori e istituzioni. Chiedersi: come sostenere la famiglia perché sia il luogo dell'educazione? Come incentivare il ruolo educativo e non soltanto istruttivo della scuola? Ci si deve anche interrogare sul sistema della comunicazione sociale, affinché favorisca una crescita formativa. Se siamo presi dall'ossessione del possesso e del successo, si corre il rischio che ciò che doveva essere di aiuto diventi invece un impedimento allo sviluppo della persona". <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n. 11 del 13 febbraio 2009
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-54544150924882993472010-11-10T13:24:00.000+01:002012-02-06T13:26:06.061+01:00Registi del simbolico. Bergman, Dreyer, Bresson<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://4.bp.blogspot.com/-48WTpsWloxk/Ty_Gag-JFlI/AAAAAAAAAFQ/3TxO4YEBwFk/s1600/Poster_Settimo_Sigillo.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://4.bp.blogspot.com/-48WTpsWloxk/Ty_Gag-JFlI/AAAAAAAAAFQ/3TxO4YEBwFk/s320/Poster_Settimo_Sigillo.jpg" width="190" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Il settimo sigillo (1956)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
Mettere insieme, unire. È questo il significato del termine simbolo, dal verbo greco “symballein”, con riferimento ad una pratica diffusa nel mondo antico e raccontata da Platone nel Simposio. Nella Grecia classica era consuetudine dividere una tessera di terracotta, un anello o una moneta e darne una metà ad un amico. Negli anni, conservando le due parti, le generazioni future potevano riconoscersi fra loro e unendo le metà divise ricordare il valore dell’amicizia. La storia del simbolo è radicata nello studio della semiotica. Nel tentativo di definire il segno, Sant’Agostino scriveva: “aliquid stat pro aliquo”, qualcosa che sta per qualcos’altro. E nella seconda metà dell’Ottocento, Ferdinand de Saussure approfondiva la riflessione individuando nel segno tre caratteristiche: significante, immagine acustica espressa nel suono o nel grafema, significato, rappresentazione semantica, e referente, oggetto concreto a cui il segno rimanda. Ma il simbolo non può essere identificato con il segno dal momento che, benché caratterizzato dalla logica del rimando, possiede un significato in sé che non si esaurisce nell’oggetto a cui esso rinvia. In questa accezione, la simbologia entra a pieno diritto nel solco di quella produzione cinematografica che non si limita alla rappresentazione del reale ma si preoccupa di introdurre ulteriori elementi di significato.<br /><br />
Tra i registi che più di altri si sono interessati all’orizzonte simbolico, Ingmar Bergman è uno dei maggiori esponenti. Figlio di un pastore, cresciuto in una ricca famiglia di Stoccolma, Bergman scopre fin da giovane i grandi enigmi della vita ed instaura con i genitori un rapporto complesso, aggravato dal carattere malinconico del padre predicatore. Per il dodicesimo compleanno riceve il primo proiettore e, da quel momento, scopre un mondo di evasione nel quale poter dare forma ai sogni che per lui avevano sostituito le immagini del reale. </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">La carica simbolica di Bergman trov ampia realizzazione nella pellicola Il settimo sigillo (1956). In una Danimarca devastata dalla peste, il cavaliere Antonius Blok è di ritorno dalle Crociate insieme all’agnostico scudiero Jons. Ad attenderli al loro arrivo sulla spiaggia è la Morte, che ha deciso di portare via Blok: “È già da molto che ti cammino a fianco, sei pronto?” chiede la Morte, “Il mio spirito lo è, non il mio corpo” risponde il cavaliere che decide di sfidarla a scacchi. La partita ha inizio e si svolge in più riprese, mentre Blok e lo scudiero attraversano il paese incontrando molte persone divise tra quante si sottopongono a dure forme di mortificazione per espiare i peccati e quante sono dedite alla pratica dei piaceri. Nel percorso, i due fanno conoscenza di una famiglia di saltimbanchi che sembrano non risentire del dramma che attanaglia la Danimarca e vivono di amore e serenità. L’unione di Jof, Mia e il bambino spingerà Blok verso una rinnovata fede e lo avvicinerà a Dio. Ma nella foresta, di notte, la Morte si avvicina al cavaliere e ai suoi nuovi compagni per prenderli tutti con sé. E così Blok, nel corso dell’incontro di scacchi, rovescia intenzionalmente i pezzi permettendo ai saltimbanchi di scappare mentre la Morte riordina con inganno le figure e dà scacco matto al cavaliere. Memorabile la scena finale con Jof che, risvegliatosi con la famiglia sulla riva di una spiaggia, vede in lontananza la Morte che porta via Blok insieme ad altri che la seguono in una danza verso l’ignoto: “Mia, li vedo! Mia, li vedo! Laggiù contro quelle nuvole scure. Sono tutti insieme…e la morte austera li invita a danzare. Vuole che si tengano per mano e che danzino in una lunga fila. In testa a tutti è la morte, con la falce e la clessidra…danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto, mentre la pioggia racquieta i loro volti e terge le loro guance dal sale delle lacrime”. Il finale simbolico che Bergman sceglie per Il settimo sigillo è aperto alla speranza: sono gli umili e i semplici, rappresentati nei personaggi dei giocolieri, a salvare le proprie vite. Tutta la pellicola è una metafora del rapporto fra l’uomo e Dio, un incontro fatto di tensione e ricerca come testimoniano le parole del cavaliere Blok: “Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde dietro mille e mille promesse e preghiere sussurrate ed incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me e sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?”. Ma Il settimo sigillo è un film allegorico che mette in scena anche l’atavico timore degli uomini di fronte al mistero della morte: “Il fatto che la morte rappresentasse la fine dell’esistenza – dice il regista -, l’ingresso in una porta oscura, era qualcosa che non potevo controllare, sistemare o prevedere. Era una sorgente costante di orrore. Allora ho raccolto il mio coraggio e ho raffigurato la Morte come un pagliaccio bianco, una figura che parlava, giocava a scacchi e non aveva segreti. È stato il primo passo per combattere la mia monumentale paura della morte”. <br /> <br />
Dopo dieci anni di inattività cinematografica, Carl Theodor Dreyer realizza una pellicola densa di simbolismo religioso, Ordet (1955). Morten Borgen è il patriarca di una benestante famiglia di un villaggio dello Jutland. Il primo figlio, Mikkel, è sposato e non credente mentre il secondo, Johannes, è uno studente di teologia che agli occhi di tutti sembra aver perso il lume della ragione, con il suo profetizzare e predicare come fosse la reincarnazione del Salvatore: “Guai a coloro che non credono perché solo quelli che hanno la fede saranno ammessi nel Regno dei Cieli. Amen”. Ad aggravare il momento di crisi spirituale vissuto da Morten è però il figlio più piccolo, Anders, che è in procinto di sposarsi con la figlia del sarto Peter, famiglia appartenente ad una diversa setta protestante. Il clima teso dei Borgen è alleviato da Inger, moglie di Mikkel, madre di due bambine e incinta del nipote maschio tanto atteso dal vecchio Morten. Nel momento in cui esplode una violenta lite in casa tra il patriarca e il sarto, Inger viene colta dalle doglie e partorisce il bimbo morto. Dopo qualche ora di agonia, anche la donna si spegne. Il dramma improvviso colpisce l’animo di tutti i presenti, restituendo apparentemente la ragione a Johannes che smette di elargire le sue prediche singolari. E mentre gli uomini sono raccolti in preghiera intorno alla salma che sta per essere chiusa nella bara, Johannes pronuncia la Parola in nome della fede limpida e speranzosa della figlia della donna morta. Inger resuscita e tornata a respirare grida: “La vita! La vita!”. Con Ordet Dreyer contrappone due visioni della fede che sembrano essere chiuse in se stesse, da una parte il pazzo Johannes e dall’altra i personaggi che compongono la vicenda. Ma la pellicola del regista danese suggerisce in modo simbolico l’idea che soltanto la fede di coloro che credono con cuore sincero può condurre a Dio, come afferma lo stesso Dreyer: “La fede dei semplici muove le montagne e resuscita i morti perché è fede nella vita e nell'amore”. Per comprendere la struttura del film non si può prescindere dalla storia personale del regista. Venuto al mondo clandestinamente da una madre che svolge lavori umili e si prostituisce per sopravvivere, il piccolo Dreyer viene affidato ad una coppia di genitori adottivi che lo crescono con attenzione ma senza amore. Anni più tardi scopre la causa della morte della madre, spentasi nel tentativo di procurarsi un aborto, e il sentimento di amore assoluto nei confronti di quella donna sarà filo conduttore di tutta l’opera del regista.<br /> <br />
Nel XII secolo Agostino di Dacia compone il distico divenuto famoso nella tradizione medievale cristiana, che riassume i quattro livelli di lettura della Bibbia: “Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia”. Si capisce allora l’importanza del linguaggio allegorico per la comprensione del significato profondo della Scrittura, che necessita di figure e immagini simboliche che possano far vibrare il messaggio di Dio nell’animo umano. È così che anche un asino può diventare metafora e spunto di riflessione sull’uomo e la religione. Balthazar è un ciuco compagno di giochi del piccolo Jacques e dei suoi amici durante le vacanze in un paese basco. Quando il giovane torna a Parigi, Balthazar diventa proprietà della coetanea Maria che, legata da una promessa d’amore a Jacques, suscita la gelosia del guascone e teppista Gèrard. Dopo averla circuita, Gèrard compie ogni sorta di angheria sull’asino per poi lasciarlo ad un alcolizzato, Arnold, che di lì a breve muore. Balthazar finisce prima in un circo, esibito per le sue presunte doti matematiche, e poi nelle mani di un meschino produttore di acqua minerale, aggiogato alla ruota di un pozzo. Soltanto alla fine, l’asino riesce a tornare di proprietà di Maria. E quando Jacques torna in paese, per scagionare il padre della ragazza indagato dalla polizia, i due decidono di sposarsi. Gèrard, messo a conoscenza della decisione da Maria, la violenta insieme al branco dei suoi amici. Lei abbandona il paese e quando il padre muore Balthazar resta alla vedova. Finché un giorno Gèrard e un compagno rubano l'asino, per sfruttarlo nel contrabbando di merce. Al confine, Balthazar viene ferito dai finanzieri e muore in mezzo a un gregge di pecore che gli si fanno attorno. Au hasard Balthazar (1966), una delle opere più importanti del regista francese Robert Bresson, è pellicola di ampio respiro simbolico. L’asino Balthazar è, sotto molti aspetti, raffigurazione dell’agnello sacrificale o animale della natività. Le vicende rimandano ad un preciso episodio biblico, quello dell’asina di Balaam (Numeri, 22) che avendo scorto l’Angelo del Signore sulla strada per Balak devia per tre volte il percorso del padrone. Percossa da Balaam, l’asina subisce le umiliazioni che toccano in sorte a Balthazar. Ma Dio dischiude il suo disegno a Balaam e apre i suoi occhi facendolo pentire, mentre la violenza che colpisce Balthazar è un veleno mortale che gli uomini distribuiscono anche ai propri simili. Soltanto alla fine l’asino viene accolto dalle pecore, che si moltiplicano per stargli vicino, negli ultimi respiri della sua vita. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 11 - Novembre 2008</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-17967278002688738622010-07-14T15:16:00.000+02:002012-02-06T15:20:14.401+01:00Spiritualità nel cinema laico<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-42-wkM6dV7I/Ty_hH-OMsmI/AAAAAAAAAFY/cGhN_z_er9E/s1600/Poster_Centochiodi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://3.bp.blogspot.com/-42-wkM6dV7I/Ty_hH-OMsmI/AAAAAAAAAFY/cGhN_z_er9E/s320/Poster_Centochiodi.jpg" width="224" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Centochiodi (2007)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
Presenza, assenza. Pienezza, vuoto. Il desiderio di spiritualità, l’anelito di trascendenza che aspira alla comprensione dell’Altro, non lascia esente l’impegno del cinema laico. Se la Chiesa è chiamata al compito di comunicare la buona novella all’uomo, il percorso tracciato da artisti laici si rivela spesso illuminante per capacità d’introspezione e riflessione sul mistero di Dio. È singolare notare come nel libro della Genesi, Dio abbia parlato ad Adamo prima ancora di averlo creato. Adamo che, oltre il distinguo fra maschio e femmina, rappresenta l’umanità intera destinata a comunicare con Lui. Una responsabilità importante dunque, quella custodita nella Bibbia: essere capaci di ricostruire il dialogo con Dio e, al tempo stesso, divenire profeti della sua Parola. Ma, avvisa Platone, il compito di comunicare il mistero è assai impegnativo: “Sette anni di ricerca silenziosa sono indispensabili ad un uomo per apprendere la verità; ma gliene occorrono quattordici per imparare come comunicarla ai suoi simili”.<br />
In non pochi casi, questa sfida di avvicinarsi al sacro, sollecitando le domande profonde che interrogano ogni uomo, viene raccolta da registi laici. Talvolta non credenti, ma sempre in ricerca. È il caso di Saverio Costanzo, che ha diretto il film In memoria di me: “Io stesso non credo di credere”. Uscito lo scorso marzo generando un inutile coro di proteste omofobe, In memoria di me narra lastoria del giovane Andrea (Christo Jivkov) che, entrato in noviziato per diventare sacerdote, si trova a condividere la quotidianità con gli altri novizi, i Padri superiori e i sacerdoti anziani. Tratto dal libro autobiografico di Furio Monicelli, “Il gesuita perfetto”, il film si svolge nei tetri corridoi di un monastero sull’isola di San Giorgio, a Venezia. In questo luogo lontano dalla vita mondana Andrea si profonde negli esercizi spirituali, tormentato da una vocazione che non trova risposta. </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Nell’incontro con un altro novizio, Zanna (Fausto Russo Alesi) che attacca la Chiesa accusandola di aver sempre utilizzato la parola di Dio per il suo tornaconto, Andrea si ritrova a confrontarsi con una fede che non è salda come sperava. L’amicizia con Zanna si stringe lungo un percorso di silenzio e meditazione che, nonostante il sostegno del Padre superiore (André Hennicke), lo conduce alla comprensione della sua inadeguatezza in un luogo che non rispecchia la fede che cerca. Nel film, il viaggio spirituale che il protagonista intraprende non è mai conclusivo e la ritrovata libertà, che sembra potersi realizzare al di fuori delle mura del monastero, non è acquiescenza dell’anima ma ricerca incessante: come ci ricorda Miguel de Unamuno, “la fede che non dubita non è fede”. Saverio Costanzo dirige una pellicola asciutta che, immersa in un’atmosfera cupa echeggiante le tinte del genere thriller, evita i luoghi comuni e le facili derive nell’affrontare un tema importante come quello della vocazione. Peccando nel controllo della musica, a tratti invasiva, il regista dipinge un affresco nel quale tratteggia con vigore istanze sul potere della religione domandando cosa si è costretti a fare nel nome della fede, come nella sequenza dell’abbandono del convento da parte di un novizio e la menzogna del Padre superiore nel riferire la notizia agli altri. Eppure, nel silenzio che attraversa il film, non dimentica di lasciare la fede a quello spazio intimo di cui ciascuno è custode. In memoria di me non vuole condurre lo spettatore ad un porto. Ma lasciarlo in mare aperto. <br /> <br />
Quasi in contemporanea con il lungometraggio di Saverio Costanzo, è la pellicola diretta da Ermanno Olmi: Centochiodi. Ultimo lavoro di cinema narrativo di messa in scena, Centochiodi è la storia di un professore (Raz Degan) dell’Università di Bologna che, durante la stesura di un’opera rivoluzionaria per il rapporto tra fede e filosofia, abbandona tutto e si rifugia sulle rive del Po dove inizia una nuova vita insieme alla comunità di persone semplici che abita il paese nelle vicinanze di San Giacomo. “Ma i libri, pur necessari, non parlano da soli”, è la frase da Raymond Klibansky che precede le immagini di Centochiodi, je accuse nei confronti del sapere istituzionalizzato e della conoscenza incancrenita che non lascia l’uomo libero di realizzare se stesso. Il film inizia come un giallo autentico: una ripresa dall’alto della sala interna della biblioteca mostra cento libri, fra manoscritti e testi antichi, fissati al pavimento con dei chiodi. Sembra che si debba assistere alla soluzione del mistero, scoprire chi è l’artefice del misfatto. Invece la pellicola prende una direzione inaspettata, tracciando i contorni di una parabola cristologica contemporanea. Riguardo alla scelta di chi fosse il protagonista del suo congedo dal cinema narrativo, Olmi dichiara: “È scontato dire ‘il Cristo’? Sì: il Cristo Uomo, uno come noi, che possiamo ancora incontrare in un qualsiasi giorno della nostra esistenza: in qualsiasi tempo e luogo. Il Cristo delle strade, non l’idolo degli altari e degli incensi. E neppure quello dei libri, quando libri e altari diventano comoda formalità, ipocrita convenienza o addirittura pretesto di sopraffazione”. Il sapere vuoto, quello che non porta alla sapienza del cuore, è la condizione disumana e alienante denunciata dal regista: “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè, una carezza”, dice ad un tratto il protagonista. Nella riscoperta della vita semplice e degli affetti spontanei, si compie l’allegoria proposta da Olmi. Fra apprezzabili spunti riflessivi - come nel dialogo fra il professore e il curatore della biblioteca: “Nel giorno del Giudizio, sarà Dio a dover rendere conto della sofferenza degli uomini” – e la struggente musica del “Non ti scordar di me”, Centochiodi rischia a tratti di naufragare nelle acque placide del Po posandosi tenuemente sul ritratto di una comunità rurale e di un’esistenza all’insegna di una esasperata semplicità. E alcuni dialoghi, come quello fra il professore e un commissario dei Carabinieri, rasentano con imbarazzo l’insensatezza del già detto. Se la parabola cristologica non contiene la pienezza che si attendeva, la mano di Olmi conferisce tuttavia una gravità che spinge alla riflessione su temi forti e muove alla riflessione. Dice il regista: “Giungono da ogni parte grida di guerra e di dolore quasi fossero un tributo da pagare a un Dio assurdo di distruzione, che semina odio fra gli uomini. Dov’è il Dio di pace?”. <br /> <br />
Presentato fuori concorso alla 63ª Mostra del cinema di Venezia, L’isola, atteso film di Pavel Lunghin in uscita nelle sale italiane verso ottobre, è un’opera di ispirazione mistica. Laico, laureato in linguistica matematica ed applicativa all’Università statale di Mosca, Lunghin dirige una pellicola nella quale, come sottolinea lo stesso Patriarca Alessio, “i problemi della vita spirituale e della salvezza sono posti in primo piano e gli spettatori che, forse per la prima volta, si sono scontrati con questi problemi, sono indotti a una profonda riflessione”. L’antefatto. Durante la seconda guerra mondiale, il giovane marinaio (Piotr Mamonov) di una nave sovietica intercettata dai tedeschi spara al suo comandante per avere salva la vita. Trent’anni dopo, in un piccolo convento ortodosso sperduto su un’isola del Mar Bianco, il monaco eremita Anatolij, nome assunto dal marinaio omicida, è conosciuto per le sue capacità taumaturgiche, preveggenti ed esorcistiche. La fama di Anatolij spinge un ammiraglio della marina sovietica a portargli la figlia malata che nessun medico è riuscito a guarire. Il monaco riconosce nell’uomo il capitano che da giovane credeva di avere ucciso. Guarisce la figlia e ottiene il perdono. Per morire in pace. Passato in sordina alla kermesse veneziana e acclamato in patria, L’isola è un film profondamente religioso, permeato da un senso di spiritualità e contrizione perfettamente incarnato nella figura di un assassino che, stretto dal dolore del delitto compiuto, offre la sua vita a Dio. A chi gli chiede il motivo della svolta religiosa data al suo lavoro creativo, Lunghin risponde: “Veramente non la so spiegare neanch’io. È semplicemente un film sul fatto che Dio esiste. Viene il momento in cui questo diventa importante”. Il monaco Anatolij, cui Piotr Mamonov conferisce il sofferto volto dell’espiazione, ricorda tanto il dostoevskijano Raskol’nikov protagonista di “Delitto e Castigo”. Anche ne L’isola, il tema del castigo è il perno attorno al quale ruota il faticoso percorso che conduce al pentimento. Per Lunghin, che molto risente della tradizione letteraria russa ed in particolare dell’opera di Dostoevskij, l’idea che il perdono e la grazia giungano soltanto a conclusione di un percorso di sofferenza è centrale: non c’è redenzione senza dolore, non c’è salvezza senza purificazione. Una purificazione che si compie nella contrizione dell’animo che riconosce l’orrore del peccato commesso. E soltanto alla fine di un lungo viaggio, può aspirare alla pace. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 8/9 - Agosto/Settembre 2007</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-73530711207401116552010-07-07T13:15:00.000+02:002012-02-06T13:23:29.019+01:00Adolescenti nel cinema e in Tv<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-eRi33rrMtqk/Ty_Em0OCuWI/AAAAAAAAAFI/flVA40kyfeU/s1600/DeadPoetsSociety.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="http://3.bp.blogspot.com/-eRi33rrMtqk/Ty_Em0OCuWI/AAAAAAAAAFI/flVA40kyfeU/s1600/DeadPoetsSociety.jpg" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">L'attimo fuggente (1989)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
“L’adolescenza porta con sé la scoperta dell’ingiustizia, il desiderio dell’indipendenza, lo svezzamento affettivo, le prime curiosità sessuali. Dunque è l’età critica per eccellenza,l’età dei primi conflitti tra la morale assoluta e la morale relativa degli adulti,tra la purezza di cuore e l’impurità della vita. Infine è, dal punto di vista di qualsiasi artista, l’età più interessante da mettere in luce”. E lui, Francois Truffaut, è restato tanto affascinato da questa età del cambiamento al punto da realizzare un lungometraggio che ha sancito la nascita di una nuova corrente cinematografica, la Nouvelle Vague: I quattrocento colpi (1959), è la storia del giovane Antoine Doinel e del suo difficile percorso verso l’età adulta. Figlio di una famiglia che non sa amarlo, Doinel finisce in riformatorio per uno dei piccoli furti compiuti nel tentativo di riempire il senso di vuoto della sua esistenza. La fuga verso il mare che non ha mai visto, resta uno dei finali più intensi della storia del cinema.<br /> <br />
Narrazione ed educazione. La situazione di contraddittorietà che segna l’adolescenza, età di mezzo fra il desiderio di emancipazione dalla famiglia e la reale dipendenza da essa, trova da sempre un perfetto mezzo espressivo nel cinema. Dai tempi di Chaplin, Il monello (1921), e di James Dean, Gioventù bruciata (1959), l’occhio della cinepresa ha indugiato sulla stagione della vita più intensa e affannosa, proiettandone sul grande schermo le storie, i sogni, i dolori e le difficoltà. In questa direzione, il cinema svolge la doppia funzione di rappresentare una narrazione sull’adolescenza e di rivolgersi ai protagonisti stessi dei suoi racconti. Si potrebbe dire che il rapporto fra cinema e adolescenza può essere visto da due angolazioni: l’una, che attiene alla produzione cinematografica che ha per soggetto l’adolescenza; l’altra, che riguarda l’educazione degli adolescenti al cinema.</span>
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<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> Dal primo punto di vista, i lungometraggi centrati sull’adolescenza hanno caratterizzato ogni periodo del cinema. Gli anni Ottanta - senza dimenticare titoli precedenti quali Germania, anno zero (1947) di Roberto Rossellini, Jules e Jim (1962) di Francois Truffaut, American Graffiti (1973) di George Lucas, Cognome e nome: Lacombe Lucine (1973) di Louis Malle, Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius -, offrono un interessante panorama di film che hanno per protagonisti degli adolescenti. Peter Weir, regista australiano trasferitosi negli Stati Uniti d’America dopo il successo di Picnic ad Hanging Rock (1975), gira due pellicole significative: Gli anni spezzati (1981), drammatico racconto di due giovani amici che combattono a Gallipoli, durante la Prima Guerra Mondiale, diventando adulti e poi morendo nel mezzo di una guerra di cui non comprendono le regole; e L’attimo fuggente (1989), suggestivo ritratto di una prestigiosa scuola inglese la cui rigida quotidianità è rotta dall’arrivo del nuovo professore di letteratura, interpretato da un superlativo Robin Williams, che libera i suoi ragazzi dall’amido del conformismo attraverso la poesia. Instillando la rivoluzionaria forza della libertà e suggerendo, in fondo, una chiave di lettura per la vita.<br />
Sempre in quegli anni, Francis Ford Coppola realizza il film I ragazzi della 56ª strada (1983): due bande rivali di adolescenti, i greaser e i soc, si combattono sulle strade di Tulsa, Oklahoma. Nel corso di una lite, due greaser uccidono un social, fuggono per non essere catturati dalla polizia rifugiandosi in una chiesa e salvano due bambini da un incendio perdendo la vita. A un anno di distanza, nel 1984, esce Rusty il selvaggio. Ambientato ancora a Tulsa, racconta la storia del sedicenne Rusty e del suo rapporto con il padre, alcolizzato e abbandonato dalla moglie, e il fratello, leader del quartiere che sarà ucciso da un poliziotto nel tentativo di tirare fuori dai guai il giovane Rusty emule delle sue bravate. Due film melanconici e intensi, manifesto di una generazione di giovani costretti a diventare uomini in un contesto familiare e sociale che li interroga da subito sulle questioni della vita. Melanconia che si ritrova in Peggy Sue si è sposata (1986), ancora di Coppola, nel quale la quarantenne Peggy, svenuta dopo essere stata eletta reginetta ad una festa di ex-compagni, rivive i ricordi della sua adolescenza. Altro film cult degli anni Ottanta, passando per il piacevole Breakfast Club (1985) di John Huges, è Stand by me – Ricordo di un’estate (1986) diretto da Rob Reiner. Un’escursione di quattro ragazzi alla ricerca del cadavere di un loro coetaneo scomparso da giorni, si rivela uno splendido affresco sull’adolescenza e diviene escursione interiore sui temi dell’amicizia e della morte. Al ritmo del suond avvolgente di Ben E. King. Tra gli altri lungometraggi da segnalare, I goonies (1985) di Richard Donner e Ritorno al futuro (1985) di Robert Zemeckis sono due godibili e divertenti storie di rocambolesche avventure che hanno per protagonisti degli adolescenti.<br /> <br />
Belli, disadattati e pentiti. Alle prese con i problemi di una vita vissuta sulla strada alla ricerca di una madre che non c’è e di una padre ricco ed assente, è il film che inaugura gli anni Novanta: Belli e dannati (1991) regia di Gus Van Sant. Dopo Mala noche (1985) e Drugstore cowboy (1989), Van Sant torna a parlare di adolescenza con un altro film che ha per protagonista un ragazzo povero di Boston: Will Hunting, Genio Ribelle (1997), storia di un genio matematico che, nel disperato sforzo di liberarsi da un’infanzia di violenze e abbandono, grazie all’aiuto di uno psicologo riesce a trovare la sua strada nella vita. Ancora Van Sant, firma la regia di un film che disorienta, Gerry (2002) protagonisti due giovani amici che si perdono durante un viaggio in auto, e uno di denuncia sulla società e i giovani di oggi, Elephant (2003). Del 1998 è un altro interessante lungometraggio, Buffalo ’66 dell’esordiente Vincent Gallo, che narra la storia del disadattato Billy Brown, uscito di carcere dopo aver scontato una pena ingiusta con l’unico scopo di vendicarsi del torto subito. L’amore e il perdono saranno gli elementi indispensabili per lasciare alle spalle un’infanzia difficile. Sempre del 1998 è American History X, di Tony Kaye, film di formazione nel quale il giovane Derek, dopo tre anni di carcere per un omicidio a sfondo razziale, torna in libertà profondamente cambiato. Dovrà fare i conti con il fratello e il gruppo dei pari, in un finale assurdo e senza speranza. Una menziona a parte, è riservata ad Arizona Dream (1993) di Emir Kusturica: il sogno americano di un giovane in viaggio attraverso l’America per fare visita ad un zio, è il pretesto per narrare il complesso mondo interiore in un film onirico e sussultorio. Complesso mondo interiore che governa l’adolescente protagonista di Donnie Darko (2001), sorta di anti-eroe romantico che vive tutti i conflitti interiori, le solitudini e le difficoltà di comunicare con gli adulti tipiche dell’età di passaggio. Un cult movie delle nuove generazioni, che spalanca le porte dell’interpretazione e offre molteplici spunti di riflessione. Dalla Corea, invece, giunge un film dai toni rarefatti e dalla fotografia suggestiva: Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003) di Kim Ki Duk, un coinvolgente percorso che, attraverso le varie età della vita, compie il cammino dell’esistenza mostrandone la ciclicità e la carica di passione. Atmosfera unica, per un film che vuole essere riuscita parabola della vita. Infine, una ricca produzione cinematografica è anche quella di carattere comico e parodistico – come American Pie (1999), Scary Movie (2000) e gli innumerevoli sequel – e quella diretta ad un target specifico adolescenziale, è il caso della saga di Harry Potter il cui primo film è uscito nel 2001. <br /> <br />
A lezione di cinema. Come si vede dalla rapida carrellata dei titoli proposti, il cinema è poderosa memoria collettiva di esperienze che possono stimolare la riflessione e il dialogo. Per fare ciò, tuttavia, è necessario conoscere il linguaggio cinematografico ed essere in grado di interpretarne i codici. In particolare i giovani, come detto in precedenza, devono essere educati alla lettura dei prodotti cinematografici. Una iniziativa interessante che si muove in questa direzione è “Il maestro & Biancaneve”, proposta dall’associazione CGS (Cinecircoli Giovanili Socioculturali). Analizzando otto famosi cartoon della Walt Disney, da Biancaneve e i sette nani (1937) a Alla ricerca di Nemo (2003), si parte dall’idea di fondo di “lavorare sul cartoon come su un ‘vero’ film, guidando gli spettatori (anche i più piccoli), in un percorso analitico di ‘dissezione’ dei vari livelli di lettura e riassemblaggio per un’interpretazione unitaria dell’opera”, come spiegano gli autori Fabio Sandroni e Nadia Ciambrignoni. Attraverso schemi di analisi specifici, il percorso è indirizzato a diverse fasce d’età - scuola d’infanzia, elementare, media inferiore e superiore – e ha l’obiettivo di fornire gli strumenti utili per migliorare la propria capacità di analisi dei prodotti cinematografici. Altra iniziativa è quella concepita dall’assessorato alla Cultura della Provincia di Trento: “Primo Tempo”, una serie di percorsi cinematografici rivolti agli adolescenti che frequentano la scuola media superiore con l’intento di “portare il cinema a scuola non come momento a se stante, o riempitivo, ma come testo parallelo inserito nella programmazione disciplinare e interdisciplinare”, sottolineano gli autori Laura Grimoldi, Germana Bertamini e Cecilia Salizzoni. <br /> <br />
Allo specchio della Tv. Sul versante della fiction e della programmazione televisiva, il piccolo schermo vanta un’abbondante quantità di serie che hanno per protagonisti degli adolescenti. Stando ai dati forniti dall’ultimo Rapporto dell’Osservatorio sulla Fiction italiana, “la produzione (e, correlativamente, l’offerta) di fiction domestica attraversa oggi una fase di crescita che posiziona l’industria televisiva italiana – non per volume di prodotto, ancora nettamente inferiore, ma per ascendente direzione di sviluppo – nello stesso campo delle industrie tedesca e britannica, leader europee”. Per la stagione 2004/2005, le reti Rai e Mediaset hanno programmato un totale di 696 ore di fiction italiana. Tra quelle più seguite che presentano la figura dell’adolescente, sorta di Giano bifronte con i piedi nel mondo dell’infanzia e lo sguardo rivolto all’età adulta, Grandi domani (2005) è una serie che racconta le vicende di un gruppo di allievi della scuola delle Arti e dello Spettacolo alle prese con i problemi della crescita. Il successo, cliché della società capitalistica, è l’obiettivo dei giovani ma nessuno di essi sembra poi così intenzionato a lottare per il proprio futuro. Evidente l’ispirazione a serie come Fame – Saranno Famosi e I ragazzi del muretto. Altra serie tv che affronta il tema dell’adolescenza è Padri e figli (2005): genitori e figli adolescenti si confrontano con le difficoltà quotidiane, ma la sceneggiatura manca di mordente e il facile svolgimento narrativo delude le attese. Di recente messa in onda è, poi, la fiction I Cesaroni (2006) nata da un format spagnolo. Gli episodi ci mostrano la quotidianità di una famiglia allargata in cui i due coniugi, dopo essere stati fidanzati da giovani, si ritrovano e si sposano portando ognuno i loro figli. La leggerezza con cui le problematiche vengono affrontate, e in particolare l’happy ending così comune a tutta la fiction italiana, rendono I Cesaroni un prodotto mediatico alla portata di tutti. L’adolescente viene mostrato all’interno della sua rete di amicizie costituita prevalentemente all’interno della scuola, e i conflitti sullo schermo sono quasi esclusivamente di tipo sentimentale. Nulla di più, per una fiction che rilassa ma non diverte. <br /> D’Oltreoceano giungono, invece, le serie tv più seguite. Con un interesse all’adolescenza sin dai tempi di Happy Days (1974-1984), le cui puntate vengono trasmesse ancora oggi, la fiction statunitense ha sfornato serie divenute celebri anche all’estero. Tra le altre, Beverly Hills 90210 (1990-2000), che ha per protagonisti ragazzi dell’alta borghesia del quartiere di Los Angeles, modello per un’intera generazione di adolescenti che ha generato il poco seguito spin-off Merlose Place (1992-1999); Dawson’s Creek (1998-2003), storia del sedicenne Dawson e dei suoi amici che offre un’interessante visione trasversale dei giovani; The O.C. (2003), che segue le linee tracciate dalle precedenti narrando la vita di un adolescente adottato da una ricca famiglia. La caratterizzazione dei personaggi in “tipi” e la molteplicità di situazioni che i protagonisti delle fiction si trovano ad affrontare, rende questo genere molto seguito ed apprezzato dagli adolescenti. In una sorta di visione allo specchio, la fiction è soprattutto un momento di svago nel quale ci si ritrova a confrontarsi con problemi e incertezze tipiche dell’adolescenza. Quel che va in scena, dagli amori impossibili all’incomunicabilità con gli adulti, ha riguardato o riguarda da vicino l’esperienza di vita di ciascuno di noi. Che forse, nella finzione televisiva, tenta di chiudere il cerchio di ciò che ha lasciato incompiuto. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 3 - Marzo 2007</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-61459994220322433252010-06-15T15:24:00.000+02:002012-02-06T15:48:59.308+01:00Una stagione nuova. Intervista con Luca Pancalli<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://3.bp.blogspot.com/-U_ZrrxcekNM/Ty_ilN9Gb8I/AAAAAAAAAFg/chMXYg8caLA/s1600/Luca_Pancalli.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://3.bp.blogspot.com/-U_ZrrxcekNM/Ty_ilN9Gb8I/AAAAAAAAAFg/chMXYg8caLA/s320/Luca_Pancalli.jpg" width="240" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Luca Pancalli</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
“Per il futuro ho sempre immaginato un movimento sportivo che riuscisse a racchiudere in una sintesi perfetta l'elemento agonistico e il reclutamento fra tutti i soggetti abili e disabili, che consenta di costruire una cultura sportiva del Paese oggi carente e artefatta”. <b>Luca Pancalli</b>, presidente del Comitato italiano paralimpico (Cip) e vicepresidente del Coni, è tornato in questi giorni dalla trasferta in Cina, dove dal 6 al 16 settembre si sono svolte le Paralimpiadi: “Accoglienza eccezionale sotto tutti i punti di vista. Non c'è stato nessun calo di attenzione rispetto alle Olimpiadi, sotto l'aspetto organizzativo e logistico, con una Pechino olimpica totalmente accessibile. Da questo punto di vista, è come se per il governo cinese le Paralimpiadi siano state l'occasione per rilanciare una stagione nuova di attenzione alle tematiche relative alle persone disabili”.<br /> <br /><b>
Con le 18 medaglie conquistate dall'Italia, si ritiene soddisfatto dello svolgimento delle Paralimpiadi per la nostra delegazione in Cina? </b><br />
“Siamo andati oltre le più rosee aspettative. Prima di partire, secondo un'analisi realistica e rigorosa, pronosticavo un risultato soddisfacente intorno alle 15 medaglie. Essere arrivati a 18 è un importante successo considerando gli incidenti, la sfortuna e gli infortuni agli atleti. Rispetto ad altri Paesi europei paghiamo lo scotto di poter godere di risorse importanti soltanto dagli ultimi due anni, da quando prima il governo di centro-sinistra e poi quello di centro-destra hanno preso consapevolezza dell'importanza del movimento. Nonostante la 28ª posizione in classifica generale non mi soddisfi in relazione al livello che un Paese come il nostro dovrebbe esprimere, essere riusciti a salire tre posizioni rispetto ad Atene in una Paralimpiade dall'altissimo livello tecnico mi spinge a migliorare le criticità del nostro sistema sportivo”. </span>
<br />
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br /><b>
Qual è la sua impressione rispetto alla copertura mediatica riservata all'evento? </b><br />
“Mi piace vedere il bicchiere mezzo pieno perché non ho mai creduto nelle rivoluzioni. Se la rivoluzione avesse portato a una grande attenzione mediatica, determinata soltanto dalla necessità di essere politicamente corretti, si sarebbe avuto un risultato nell'immediato che non avrebbe garantito quello che io vorrei si realizzasse nel Paese: un processo culturale che porti naturalmente a ritenere giusto dedicare quell'attenzione, perché si crede e non perché si deve. Il risultato ottenuto con un processo riformatore lento è un risultato dal quale non si torna più indietro. Rispetto al passato abbiamo fatto dei passi avanti, con la tv pubblica che ha dedicato quattro ore e mezza di diretta. Certamente la stampa, a parte poche testate sportive, ha un po' annullato le Paralimpiadi con trafiletti sui giornali. Ma io sono per la politica dei piccoli passi, piccoli ma sostenuti da un crescente grado di consapevolezza. Voglio che ci sia un'attenzione cosciente, per questo ho apprezzato che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo sport, Rocco Crimi, sia voluto venire in Cina per vedere e toccare con mano la realtà che la delegazione italiana stava vivendo”.<br /> <br /><b>
Il Comitato internazionale paralimpico ha deciso di cancellare le gare di corsa per le persone tetraplegiche, con la motivazione della scarsa presenza di atleti. Cosa ne pensa? </b><br />
“Sono molto preoccupato e critico nei confronti della politica che sta caratterizzando il Comitato internazionale. Oggi la Paralimpiade è un grande evento sportivo, mediatico ed economico che ha portato ad una necessaria «spettacolarizzazione» che rischia di compromettere la «mission» per cui il paralimpismo è nato: riconoscere eguali opportunità, diritto allo sport e all'agonismo alle persone disabili. Le conseguenze possono essere nefaste, come nel caso delle gare cancellate a causa di un numero non sufficiente di atleti. Ma io mi interrogo: se al mondo ci fossero soltanto quel numero di persone disabili che riescono ad arrivare a determinati livelli, perché negare loro il diritto di competere su un palcoscenico internazionale?”. <br /> <br /><b>
Che importanza riveste la pratica sportiva per una persona con disabilità? </b><br />
“È importante come lo è per qualsiasi persona. Lo sport è uno strumento che regala benessere fisico a chiunque, senza distinzione di età e condizione fisica. Sia per una persona disabile che per una abile, esiste poi un valore aggiuntivo nell'interesse degli Stati perché chi pratica sport ha una salute più forte e si rivolge meno al servizio sanitario nazionale. Ed è chiaro che una persona disabile può giovarne nei processi di riabilitazione, sentendosi protagonista dell'attività fisica”.
<br /> <br /><b>
Qual è il messaggio del presidente Pancalli per il futuro dello sport per persone disabili? </b><br />
“Una persona disabile è una persona che grazie allo sport non si ferma di fronte ai propri limiti. La dimostrazione è nei nostri atleti che, indipendentemente dal tipo di disabilità, hanno sviluppato al massimo le loro capacità. Oggi in Italia abbiamo potenzialmente 1 milione di persone disabili, fra i 6 e i 40 anni, che potrebbero essere avviate alla pratica sportiva. Ci sono oltre 145 mila bambini nelle scuole ai quali è negata l'ora di educazione motoria ed è quindi parzialmente negato un processo educativo che utilizza lo sport come elemento integrante. Paradossalmente, si potrebbe dire che alle persone disabili nella scuola viene riconosciuto soltanto parte di quel processo educativo. Credo che lo sport sia uno strumento educativo e un diritto che non deve escludere nessuno. Nella realtà cattolica, l'oratorio potrebbe essere una risorsa inestimabile che giochi un ruolo fondamentale per il futuro dello sport nel Paese, anche per le persone disabili”. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n. 65 del 26 settembre 2008
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-69172348700021059932010-05-11T15:27:00.000+02:002012-02-06T15:33:55.946+01:00Il "segreto" di Antonio<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-mYcEbYEBims/Ty_kdqpmEEI/AAAAAAAAAFo/EXm4BO7FSEo/s1600/droppedImage_1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="240" src="http://1.bp.blogspot.com/-mYcEbYEBims/Ty_kdqpmEEI/AAAAAAAAAFo/EXm4BO7FSEo/s320/droppedImage_1.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Antonio Spica in una sosta del viaggio</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">“Sono partito per il pellegrinaggio verso Santiago di Compostela in un momento particolare della mia esistenza. Ero rimasto senza lavoro e senza soldi, avevo perso tutto quello che può essere considerato normalità e, nonostante ciò, mi sentivo bene. Il mio segreto è la fede, ed è una cosa che non mi piace raccontare a parole ma mostrare nella quotidianità con l'esempio della vita. La fede mi dà la forza e il desiderio di affrontare le difficoltà”. <b>Antonio Spica</b> è un pellegrino particolare. In carrozzina da 4 anni dopo un incidente stradale in moto, si è messo in strada, nel mese di maggio, con una easybike (uniciclo applicato alla carrozzina per pedalare con le braccia) ed ha percorso 880 chilometri attraversando la Spagna. “Una volta, ad Assisi - racconta - alcuni turisti mi osservavano mentre pregavo di fronte al crocifisso: dai loro sguardi traspariva la partecipazione di chi credeva stessi chiedendo un miracolo. In verità, il miracolo è già avvenuto nella vita di ogni giorno. Ma in quel momento ho pensato che avrei potuto fare qualcosa di utile per tutte le persone in difficoltà”.<br /> <br /><b>
Perché il Santuario galiziano? </b><br />
“Ho cominciato a pensare al pellegrinaggio soltanto un mese prima di partire, poi tutto è venuto da sé: i soldi, autorizzazioni e l'attrezzatura necessaria. Ho scelto Santiago perché è un cammino di fede speciale. È un viaggio umile che offre la possibilità di confrontarsi con se stessi, le proprie difficoltà e quelle dei pellegrini provenienti da ogni angolo del mondo. C'è anche un significato simbolico: il percorso procede da Est a Ovest, dall'alba al tramonto, dalla vita alla morte interiore per una rinascita. E io avevo bisogno di rinascere”.</span>
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<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"> <br /> <br /><b>
Cosa ti ha spinto a partire da solo?</b> <br />
“Una motivazione spirituale e umana. Dovevo imparare a conoscere il mio carattere e i miei limiti. Quando ancora potevo camminare non chiedevo mai aiuto a nessuno, ma ora mi sono reso conto che nello stesso momento in cui si riceve aiuto lo si dà, nell'arricchimento e nella scoperta reciproca. Sono partito da solo anche per non pesare su nessuno: la mia velocità di marcia era di poco superiore a quella di coloro che andavano a piedi e di poco inferiore a chi procedeva in bicicletta. Se qualcuno fosse venuto con me si sarebbe dovuto adattare alle mie esigenze”. <br /> <br /><b>
Ci sono state situazioni difficili? </b><br />
“I momenti più belli del viaggio erano le difficoltà. Quando stavo male mi fermavo, guardavo la natura e aspettavo che qualcuno passasse per aiutarmi. Si rompeva continuamente l'easybike, che dovevo spesso sistemare da solo in modo improvvisato. Una volta si è rotta durante la salita e ho percorso 20 chilometri prima di arrivare in paese. Per la fatica mi era salita anche la febbre. Un signore del luogo mi ha accompagnato nella chiesa, ha portato l'easybike da un fabbro che sistemava trattori e insieme al parroco mi ha accolto in una stanza per pellegrini dove sono stato curato. La mattina seguente, al risveglio, ho trovato l'easybike aggiustata e sono ripartito”. <br /> <br /><b>
Hai mai pensato di tornare a casa? </b><br />
“Soltanto una volta. Era un giorno di cattivo tempo, non incontravo nessuno per la strada e mi sentivo triste. Ad un tratto il supporto che univa la carrozzina all'easybike ha ceduto. Mi sono fermato e ho capito subito la gravità della situazione. Quando stavo per chiamare un taxi e mollare tutto, mi sono imbattuto in due ragazzi italiani a cui ho chiesto una mano per raggiungere il primo centro abitato. Entrati in paese abbiamo cercato una sistemazione per la notte, poi ho iniziato a riparare il danno con gli attrezzi portati da un abitante del posto. Non so come ci sia riuscito, ma il giorno seguente mi sono rimesso in cammino”. <br /> <br /><b>
Qual è il ricordo più bello? </b><br />
“Arrivato a Burgos incontro una coppia di francesi che, insoddisfatti dal pellegrinaggio, mi dicono: «Per te è facile fare il viaggio seduto, perché non lo fai come noi che fatichiamo?». Mentre ci troviamo lì, si avvicina una signora svizzera che mi traduce dal francese e mi confida che anche lei vuole tornare indietro perché pensa di ritrovare se stessa lungo la strada e invece non riesce a proseguire. Parliamo qualche minuto, le spiego il senso del mio cammino e ci salutiamo. Qualche giorno dopo, in un paese vicino Santiago, la rivedo venirmi incontro: mi abbraccia e mi dice di aver fatto il biglietto del treno ma, al momento di salire, si è ricordata della nostra conversazione e ha deciso di continuare. Poche parole, poi si è allontanata commossa e da allora non l'ho più incontrata”. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia </b>n. 83 del 28 novembre 2008
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-73242402376407258772010-03-03T15:43:00.000+01:002012-02-06T15:47:33.959+01:00Don Camillo e Peppone. Il mondo di Guareschi<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://2.bp.blogspot.com/-A_74N05WT6c/Ty_ndl_e-RI/AAAAAAAAAGA/AtSjPMd0Uco/s1600/Poster_Don_Camillo_e_lOnorevole_Peppone.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://2.bp.blogspot.com/-A_74N05WT6c/Ty_ndl_e-RI/AAAAAAAAAGA/AtSjPMd0Uco/s320/Poster_Don_Camillo_e_lOnorevole_Peppone.jpg" width="225" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Don Camillo e l’Onorevole Peppone (1955)</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
"Noi vogliamo raccontarvi un’altra favola vera, un’altra delle storie che il grande fiume raccoglie sulle rive della Bassa e porta al mare come foglie morte". Inizia così Don Camillo e l’Onorevole Peppone (1955), con la voce narrante di Emilio Cigoli ad accompagnare lo spettatore nella visione di questo terzo episodio della saga che vede il sindaco comunista di Brescello impegnato nella scalata politica che lo dovrebbe condurre fino allo scranno parlamentare. Ma dopo aver sostenuto l’esame di quinta elementare necessario alla candidatura, Peppone si invaghisce di una compagna inviata dal partito per aiutarlo nelle faccende politiche. </span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Soltanto grazie all’aiuto di don Camillo, in seguito a numerose e divertenti vicende, riuscirà a salvare il matrimonio e ottenuto l’incarico a Roma sceglierà di rinunciarvi per restare nel paese con la sua gente.<br /> <br />
Figli del popolo animati da un desiderio di giustizia e fede genuina, don Camillo e Peppone germogliano dalla fantasia di Giovannino Guareschi, umorista e scrittore di cui quest’anno ricorre il centenario. Padre commerciante e madre maestra, Guareschi nasce a Roccabianca il primo maggio del 1908. Fin dagli anni '30 lavora come illustratore per il quindicinale umoristico "Il Bertoldo" per poi fondare, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il settimanale del sabato "Il Candido" sul quale pubblica, l’antivigilia del Natale del 1946, il primo dei 347 racconti che comporranno la raccolta del Mondo piccolo. Come le figure di contadini e braccianti del piccolo paese di provincia che fa da sfondo alle vicende narrate così i due protagonisti creati da Guareschi rappresentano un’Italia vera e semplice, attenta alla dimensione dell’uomo e sollecita nel rispetto del prossimo. Don Camillo e Peppone, tanto opposti nelle ideologie quanto vicini nel sentimento di comune impegno per i loro compaesani, non dimenticano mai di guardare all’uomo e di incontrare la gente sentendosi parte di essa. </span>
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<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">Per don Camillo il tema dell’ascolto e del dialogo è elemento centrale che si dipana per più strade: quella della conversazione quotidiana con il crocefisso posto sull’altare dal quale Gesù parla al parroco, godibile invenzione letteraria; ma anche quella della comunicazione aperta e partecipe con le persone che il parroco incontra sul suo cammino. Non ci sono sentimenti di odio nei personaggi che abitano il Mondo piccolo di Guareschi e sebbene i due amici-nemici si trovino spesso ai ferri corti la risoluzione pacifica e distensiva è sempre dietro la porta, come ci ricorda la voce narrante alla fine di Don Camillo e l’Onorevole Peppone: "Eccoli, è ricominciata l'eterna gara nella quale ognuno dei due vuole disperatamente arrivare primo. Però se uno si attarda, l’altro aspetta. La strada è la stessa, pur se don Camillo marcia a destra e Peppone a sinistra, e assieme continueranno il loro viaggio: che Dio li accompagni".<br /> <br />
Tra le diverse opere pubblicate, da "La scoperta di Milano" del 1941 al volume postumo "Chi sogna nuovi gerani?" nel 1993, la saga di don Camillo e Peppone è raccolta in undici libri molti dei quali editi dopo la morte di Guareschi. La notorietà della coppia, già apprezzata fin dalle primi racconti apparsi sulle riviste dell’epoca, è però consacrata dalla trasposizione cinematografica quando, nel 1952, il produttore Peppino Amato affida al regista francese Julien Duvivier il compito di dirigere Don Camillo, prima pellicola tratta dal romanzo "Mondo piccolo: Don Camillo". Ad interpretare i protagonisti sono Fernandel e Gino Cervi, due volti che rimarranno per sempre impressi nell’immaginario collettivo nei panni di don Camillo e Peppone. Il primo film della serie, che conterà sei lungometraggi di cui l’ultimo interrotto per la morte di Fernandel e poi completato soltanto alcuni anni più tardi, mostra don Camillo impegnato nella costruzione di un oratorio mentre Peppone è alle prese con l’edificazione della Casa del Popolo. Dopo diversi scontri e spassosi litigi, una chiassosa rissa generale conclude il film con don Camillo spedito a fare il parroco in un paesino di montagna e Peppone, la giunta comunale e la banda del paese alla stazione per salutarlo. Nel 1953 esce la seconda pellicola, Il ritorno di don Camillo, tratta dalla stessa raccolta di racconti del precedente: il successo al botteghino è assicurato, soltanto di poco inferiore al capitolo inaugurale. Don Camillo è ancora parroco del paesino di montagna dove era stato spedito dal vescovo per punizione. Ma a Brescello la sua mancanza è avvertita da tutti, soprattutto da Peppone che non riesce a far fronte ai tanti problemi per via dell’indolenza del giovane prete inviato al posto di don Camillo. Ben presto il sanguigno parroco tornerà al paese e insieme al sindaco aiuterà la gente in occasione dell’inondazione del Po.<br /> <br />
A distanza di sei anni dal terzo episodio diretto da Carmine Gallone, Don Camillo e l’Onorevole Peppone, viene realizzato Don Camillo monsignore…ma non troppo. Questa volta ci si trova alle prese con Peppone eletto senatore a Roma e don Camillo nominato monsignore. I due sono stati allontanati dal paese per non combinare altri guai e portare scompiglio nella popolazione. Ma il loro soggiorno romano dura ben poco: di ritorno a Brescello con scuse improvvisate, ritrovano le vecchie abitudini di litigi e zuffe per la costruzione di una Casa del Popolo che esigerebbe l’abbattimento di una vecchia cappella votiva. Fino al momento conclusivo, con i due costretti a dividersi nuovamente per tornare ai loro incarichi. Il 1965 è l’anno in cui vede la luce il quinto episodio, diretto ora da Luigi Comencini: Il compagno don Camillo. Peppone e i membri del partito decidono di partire alla volta di una cittadina russa con la quale il loro paese si sta gemellando. Don Camillo, travestito di tutto punto, si unisce al gruppo e una volta giunto in Russia è costretto a nascondersi dal sindaco locale comunista intransigente. Tornato a casa, don Camillo viene scelto dal vescovo per accompagnare una comitiva di religiosi negli Stati Uniti d’America e Peppone, baffi tagliati e documenti falsi, prende il volo insieme a loro. <br />
Con Il compagno don Camillo si concludono le pellicole che hanno per protagonisti Gino Cervi e Fernandel, morto di lì a qualche anno dopo una malattia che aveva interrotto le riprese del sesto lungometraggio, Don Camillo e i giovani d’oggi, che verrà rifatto nel 1972 da Mario Camerini riscuotendo un’accoglienza tiepida da parte del pubblico che mal digerisce i nuovi attori. Poi, nel 1983, Terence Hill firma il remake di Don Camillo attualizzando temi e protagonisti agli anni '80. Ne esce una pellicola che ha ormai poco a che fare con le invenzioni creative partorite dalla mente di Guareschi, capaci invece di raccontare l’Italia sincera e profonda del dopoguerra attraverso gli occhi di due figure ormai scolpite nel patrimonio culturale nazionale: monsignor don Camillo e l’onorevole Peppone. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Rogate Ergo</b> n. 11 - Novembre 2008</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-799874870879155860.post-81715269592354097672010-01-06T15:51:00.000+01:002012-02-06T15:52:24.487+01:00Sguardo senza confini. Intervista con don Franco Lever<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="http://1.bp.blogspot.com/-2ertv7MQG2I/Ty_o5E9jpyI/AAAAAAAAAGI/S20uEF_mgWk/s1600/personaggi_chiesa._preti_trentini._salesiani._comunicazioni_sociali._ups_-_don_franco_lever._nativo_imagelarge.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="http://1.bp.blogspot.com/-2ertv7MQG2I/Ty_o5E9jpyI/AAAAAAAAAGI/S20uEF_mgWk/s320/personaggi_chiesa._preti_trentini._salesiani._comunicazioni_sociali._ups_-_don_franco_lever._nativo_imagelarge.jpg" width="235" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Don Franco Lever</td></tr>
</tbody></table>
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;">
Sguardo senza confini. Intervista a don Franco Lever
“L'aspetto che più colpisce è la radicalità di adesione a Cristo. Paolo è letteralmente catturato da un Amore che salva e libera da paure e costrizioni. Questo senso di appartenenza e di libertà gli conferisce un'energia che lo porta ad avere uno sguardo senza confini, a lasciare Gerusalemme per annunciare a tutti il messaggio di Salvezza e di Resurrezione che libera l'uomo e che sarà in grado di rivoluzionare la storia”. Don <b>Franco Lever</b>, decano della Facoltà di scienze della comunicazione sociale della Università Pontificia Salesiana, riassume così la vocazione di San Paolo per l'annuncio del Vangelo.<br /> <br /><b>
Don Lever, perché il frequente ricorso alla metafora da parte di Paolo? </b><br />
“La metafora è uno degli strumenti più potenti a nostra disposizione per esplorare l'ignoto. Quando ci troviamo di fronte alla frontiera del non conosciuto spingiamo il nostro sguardo oltre la barriera dicendo: «Quello che sto intravedendo è come... assomiglia a...». Stabiliamo un rapporto con quanto conosciamo, puntando però tutta l'attenzione sulle differenze: «È questo, ma è molto di più». Questa è la forma normale che abbiamo per esplorare la densità più profonda di ciò che siamo e per parlare di Dio. E Paolo lo sa: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio...» (1 Cor 13,12)”. </span>
<a name='more'></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Trebuchet MS', sans-serif;"><br /> <br /><b>
Che importanza riveste in lui il “medium” della scrittura? </b><br />
“L'epoca in cui sono vissuti Gesù e gli apostoli è segnata da una crescente importanza della scrittura rispetto alla comunicazione orale. Gesù non scrive il suo messaggio, ma lo affida alla comunità degli apostoli che «educa» con delicatezza e pazienza. Gli apostoli restano fedeli a questo metodo perché si tratta di trasmettere un vissuto, non solo idee: danno vita a nuove comunità, le quali, a loro volta, generano altre comunità. Per tenerle unite, per sostenerle nella fede, per garantire la genuinità della trasmissione della Parola del Maestro si ricorre presto anche ad un'altra forma di comunicazione, la scrittura. Ed è Paolo il primo ad usarla per mantenere vivi i contatti con le comunità che ha fondato, per guidarle, per accompagnarle nella comprensione più profonda della novità di Cristo. Ho qualche dubbio che noi oggi siamo altrettanto attenti ed efficaci nell'uso delle attuali forme di comunicazione. Temo che saremo accusati di pigrizia nel momento in cui ci verrà chiesto conto dell'uso fatto dei talenti a nostra disposizione”.<br /> <br /><b>
Cosa dire oggi del discorso all'Areopago? </b><br />
“Da alcuni anni si fa ricorso a questo episodio per dire che anche noi oggi dovremmo agire come ha fatto Paolo ad Atene. Confesso che al riguardo mi rimane qualche perplessità. È indubbio che Paolo, da bravo retore, parli agli ateniesi in un modo che affascina i suoi interlocutori ma, nonostante tutta la sua arte, in quell'ambiente e con quel pubblico, non convince nessuno. Quando propone la novità di un Dio che ridona la vita, viene interrotto dalle risate dei suoi ascoltatori: «Su questo ti ascolteremo un'altra volta» (Atti, 17, 32). Con questo non voglio dire che non si debba lavorare perché il messaggio cristiano sia lievito della cultura contemporanea. Osservo soltanto che l'efficacia di Paolo poggia sul suo lavoro nelle comunità e per le comunità, con le quali mantiene sempre vivo il contatto. La sua comunicazione è costruzione di rapporti”.<br /> <br /><b>
Nella sua missione l'apostolo sostenne anche momenti di tensione...</b> <br />
“Quando è in gioco un valore importante, Paolo non evita il conflitto e non ne ha paura: lavora per risolverlo, perché il conflitto, gestito in modo corretto, offre la possibilità di superare la situazione di crisi. Ad Antiochia si oppone a Pietro «a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11); con quanti sostengono l'obbligatorietà della circoncisione dissente e discute animatamente (Atti 15,2) al punto da provocare l'assemblea di Gerusalemme, il primo dei Concili. E se è arrivato a Roma è perché non ha mai evitato di «dialogare» con la comunità ebraica a cui sentiva di appartenere. Il modo in cui Paolo affronta i conflitti sarebbe un argomento di studio assai interessante, perché i conflitti ci sono anche oggi ed è necessario trovare degli spazi in cui le diverse posizioni si manifestino, si incontrino, si risolvano”.<br /> <br /><b>
Infine, i suoi viaggi, sempre con la passione di comunicare... </b><br />
“Ma è solo l'aspetto esteriore della sua intensa attività di apostolo. Non viaggia per vedere luoghi; non va ad Atene per la fama dei suoi monumenti; a Roma ci arriva prigioniero. Si sposta solo e sempre per annunciare Cristo, per incontrare persone, per ritrovare i fratelli. Là dove si ferma, lavora per costruire la comunità. Da questo punto di vista trovo un'analogia con l'incessante viaggiare di Giovanni Paolo II. L'aspetto più appariscente ci è sempre stato mostrato dai mass media. Ma c'era un altro lavorio in atto nelle comunità che attendevano l'arrivo del Papa, un'intensa attività che impegnava la comunità a riscoprire se stessa, a giudicare la sua fedeltà, a rinnovare la sua azione missionaria”. <br /> <br /><span class="Apple-style-span" style="font-size: x-small;">
Pubblicato in: <b>Sir Italia</b> n. 81 del 21 novembre 2008
</span></span>Riccardo Benottihttp://www.blogger.com/profile/17247492052971293571noreply@blogger.com0